ItaliaOggi, 25 febbraio 2020
Alessandro Sartori, l’aggiustatore di matrimoni rotti
Solo un luminoso esempio di fedeltà matrimoniale, amore genitoriale e attaccamento alla famiglia poteva indurre l’avvocato Alessandro Sartori a dedicare la vita a tradimenti, bigamie, separazioni, divorzi, abbandoni del tetto coniugale. Il modello lo ebbe in casa. Si chiamava Angelo, detto Angelin. Il padre. Pure lui avvocato. Classe 1905, morto nel 1982. Un gigante, a lungo presidente della Croce verde, che onorò la sua città con la poesia dialettale, ed è scandaloso che Verona non abbia ancora trovato il modo di celebrare questo ingegno, designato dall’amico Berto Barbarani suo erede spirituale, intitolandogli almeno una strada.Angelin perse la moglie Irma Zanella, che gli aveva dato sei discendenti, nel 1959, per un tumore, quando lei aveva appena 53 anni e lui 54. Ai figli che lo esortavano a risposarsi, rispondeva: «De amori ghe n’ho avù uno solo, no’ posso». E come viatico consegnò loro le due liriche più struggenti delle 147 raccolte in un libro ormai introvabile, e cioè Mama, quella che si chiude con la strofa «La mama l’è na santa: / volìghe ben, amèla... / quando l’è morta ela / Mame no ghe n’è più!», e Vedovo: «Oh! la foreta freda / de note lì darente / dove no ghè più gnente / de quel che t’eri Ti / e quel To posto a tola / in mezo a la me gente / con tuti lì darente / ma no darente a Ti... / e mi bisòn che creda / e creda veramente / che tornarò darente / sempre darente a Ti. / Signor lassè ch’el siga / “credo... ma che fadiga!”». Quando il gradese Biagio Marin, che insieme al napoletano Salvatore Di Giacomo era uno dei suoi più cari amici, ricevette questi versi, gli telefonò per dirgli che non aveva mai letto nulla di più bello in vita sua.
Laureato in Giurisprudenza nel 1963, Alessandro Sartori ha ereditato dal padre uno studio specializzato in diritto civile, commerciale, societario, fallimentare e internazionale, diventando il legale di fiducia di primarie aziende nazionali. Ma è nelle cause domestiche, aventi per oggetto i rapporti fra marito e moglie e fra genitori e figli, che si appassiona di più e viene considerato un principe del foro, tant’è che fino a pochi mesi fa è stato presidente nazionale dell’Associazione italiana degli avvocati per le famiglie e i minori.
Perpetuando l’amicizia che legava Alberto Trabucchi a suo padre, è cresciuto chiamando zio l’insigne giurista, fratello di Giuseppe, ministro dc, e di Emilio, farmacologo, dal 1952 al 1993 sindaco di Illasi, un record italiano. «Il battesimo di fuoco lo ebbi con un processo per sottrazione consensuale di minore, che allora era un reato contro la famiglia», ricorda. «Una sedicenne, impiegata in un famoso studio legale cittadino, era stata sedotta dal datore di lavoro ultracinquantenne. Ne uscì una tesi sul ratto improprio, con la quale mi laureai».
Sartori, 80 anni compiuti il 9 dicembre, rappresenta l’esatto contrario di quel suo collega che si portava la segretaria adolescente all’hotel Danieli di Venezia per circuirla. Assomiglia a un quacchero. È astemio, benché suo nonno Pietro abbia fondato a Santa Maria di Negrar una cantina che produce Amarone; non fuma; beve solo acqua o al massimo succo di mela limpida e tè alla pesca imbottigliati dalla fonte Plose di Bressanone; mangia per la sopravvivenza, in particolare riso, sedano e patate («almeno sei volte la settimana»). Soprattutto anche lui, come il padre, si è sposato una sola volta, nel 1978, con Gabriella Germinario, insegnante originaria di Trani. Hanno due figli e sei nipoti.
Che cosa ha imparato dal papà?
A comportarmi bene, a «far pulito», come raccomandò nella poesia Angelo novo, composta il 22 aprile 1966 per la nascita del primo nipotino maschio, Angelo, figlio di mio fratello Pietro: «Ma quando, più grando, / ossia zà ’n ometo, / te lesarè i versi / del poro nonéto, / fa’ in modo, amor mio, / ch’el t’abia servìo / l’averte qua scrito: / “Fa’ sempre pulito!”». E che «la vita l’è meio e no pezo / se vien ogni tanto un batezo».
Da chi ereditò quest’arte?
Noi siamo indotti a ritenere che con l’Unità d’Italia si sia sempre parlata la lingua nazionale. Non è così. Non lo è stato fino al secondo dopoguerra, agli anni del boom, quando la tv in bianco e nero ha davvero unificato l’Italia. Accadde perciò che nel 1915, quando mio padre aveva 10 anni, il maestro elementare mandasse a chiamare mio nonno per dirgli: «Sono stato l’insegnante di cinque dei suoi figli, ma questo è diverso: in classe scrive poesie. Perciò, la supplico, lo mandi a imparare l’italiano». Al che mio nonno replicò: «E dove?». «A Firenze, al Collegio degli Scolopi», rispose il maestro. Non era forse andato anche Alessandro Manzoni a «risciacquare i panni in Arno» prima di accingersi alla stesura dei Promessi Sposi? E così mio padre frequentò le medie e il liceo classico in quella che veniva considerata la scuola della nobiltà. Infatti ebbe per compagna di studi la contessa veronese Ida Pellegrini.
La futura moglie di Luigi Einaudi, il secondo presidente della Repubblica.
Esatto. E qui si apre un capitolo divertente. Una mattina nel 1954 mio padre sentì per caso la sua segretaria che farfugliava al telefono: «Cossa dìselo? El signor Quirinale? No capisso». Comprese al volo ciò che stava accadendo e le strappò la cornetta di mano. «È l’avvocato Sartori? Le passo Donna Ida», gli comunicarono dall’altro capo del filo. L’ex compagna di collegio invitò mio padre a Roma per una cena fra amici: «Mio marito dà un ricevimento. Porta con te alcuni poeti di casa nostra». Papà rimase frastornato, ma non poteva sottrarsi a una chiamata del Quirinale.
Da chi si fece accompagnare?
Da Bepo Spela, alias Giuseppe Barni, che aveva tradotto Giulietta e Romeo in dialetto, e dal Gibe, Gino Beltramini, direttore di Vita Veronese. A metà cena, Ida diede di gomito a mio padre: «Angelin, bisogna che te disi quela là!».
Tiro a indovinare: La lode de l’ecelentissima merda.
Una delle sue poche liriche prosaiche, insieme con El bognon e La dentiera. Figurarsi l’imbarazzo di papà. Einaudi e i suoi ospiti, evidentemente informati da Donna Ida circa il tema della poesia, già pregustavano il divertimento, ridacchiando. Paonazzo, attaccò a recitare: «La merda mi canto / umano prodoto / e ci ghe dà contro / che i vegna pur soto / che alora ghe spiego / con tuto el me fià / el ben infinito / che al mondo la fa». Era presente Leo Longanesi, che fungeva da interprete per l’ambasciatore di Francia. Il diplomatico alla fine si rivolse a mio padre con le lacrime agli occhi: «Monsieur, se mi consegna la sua poesia, la faccio tradurre nel mio Paese da Jacques Prévert e diventiamo ricchi».
Ma com’è che gli venne in mente un simile componimento?
Intanto va tenuto conto che risale al 1922, quando aveva 17 anni. Mentre nell’ufficio di suo padre stava scrivendo una lettera, all’ennesimo rifacimento gli scappò l’esclamazione attribuita a Cambronne. La segretaria restò di sasso. E così il genitore gli inflisse cinque giorni di reclusione in camera, a pane e acqua. La lode nacque durante questa clausura punitiva.
Sua madre non si scandalizzava quando recitava La lode?
No, andava orgogliosa di tutte le poesie di papà, e in particolare del sonetto L’amor che le dedicò sempre a 17 anni, appena la conobbe: «Un omo de ’na dona se inamora, / par conto mio, in sti du modi qua: / o par quelo ch’el vede par de fora / o par quelo che dentro el g’à trovà... / L’amor, nel primo caso, el va in malora / in pressia come in pressia l’è rivà, / nel secondo el ghe mete a trarse fora, / ma dopo el more dove el s’ha tacà...». La recito quando vado a tenere i corsi per fidanzati in giro per la diocesi.
In quale veste la invitano?
Nella mia, quella di legale. Raccomando loro: coltivate le vostre donne! «Tvb ++», ti voglio tanto bene più più, il linguaggio di Whatsapp e degli sms, è la rovina dei nostri tempi. I giovani non si parlano, non si conoscono. Mi tocca fare uno show mica da poco per scuoterli da questa catalessi.
Che altro gli dice?
Che c’è troppa gente, a cominciare dagli avvocati, che mangia sulla crisi della famiglia, anzi delle famiglie, perché per il codice civile lo sono tutte quelle alla cui base vi sia un rapporto sentimentale di natura stabile ed esclusiva.
Non è una sola, la famiglia? Altrimenti perché il codice chiamerebbe unioni civili tutte le altre?
La famiglia è dove esistono reciproca attrazione, affettuosa intimità, appassionata tenerezza. Poi, certo, per me resta quella formata da uomo e donna, dove i figli nascono e non vengono comprati.
Sfaldatosi il matrimonio della figlia con l’attore Raoul Bova, la sua collega Annamaria Bernardini de Pace mi confidò: «Vista da vicino, la famiglia fa acqua».
Settanta unioni su 100 vanno a catafascio in tempi brevi. Se mi limito all’ultimo mese, ne ho già viste 21 di famiglie finite in frantumi nel mio studio. In passato mi sono capitati casi di coppie separatesi dopo tre giorni, diconsi tre. «Ho scoperto che lui è diverso da come credevo», mi confessò una signora. Allora le chiesi: ma scusi, vi ha travolto uno tsunami affettivo? vi siete conosciuti in crociera? vi ha sposato a bordo il comandante?
Perché, può farlo?
Eccome, è investito di poteri immensi il comandante di una nave. Macché, erano stati fidanzati per quattro anni! Capisce? Non si parlano. Fanno l’amore con il primo che capita, poi si svegliano al mattino e hanno un sussulto: oddio, chi è questo nel mio letto? me lo devo tenere per tutta la vita?
L’uomo per sua natura non è monogamo, c’è poco da fare.
Di qui l’infedeltà, diffusissima. Però le nozze naufragano perché vengono contratte da persone estranee l’una all’altra.
Ma lei le famiglie le aggiusta o le disintegra?
Per principio faccio l’impossibile affinché restino unite. È sempre più difficile. Ai coniugi che vengono per separarsi dico: guardate che io sono l’avvocato dei figli, non vostro.
Che cosa nuoce al matrimonio?
La triste abitudinarietà.
«La noia», per l’avvocato Cesare Rimini, illustre matrimonialista.
La stanchezza. Resta solo la banalità del legame di facciata.
Rimini mi ha detto: «Matrimoni che sono andati benissimo per decenni finiscono quando lui va in pensione. Il motivo? Il marito era sempre in ufficio, aveva il suo vice e la sua segretaria, impartiva ordini. Da pensionato bighellona per casa e magari usa i toni imperiosi che adottava in azienda. La pazienza della moglie finisce per esaurirsi».
E per quale motivo crede che io sia venuto in studio anche la mattina dell’Epifania? Scherzo. Comunque non andrò mai in pensione. Voglio morire qui, alla scrivania.
Ma se molte persone sanno in partenza di non essere tagliate per il matrimonio, come mai insisteranno a sposarsi una, due o tre volte per poi lasciarsi?
Ci sono in giro troppi mariti anaffettivi. O immaturi. Se incontrano un’ereditiera, subentra anche il calcolo. Ho conosciuto un professionista che ha divorziato quattro volte. Assistevo le sue mogli, l’ho sempre bastonato. È un genere di cliente per il quale la mia porta è socchiusa quando entra e spalancata quando esce. Spesso sono io a cacciarlo via.
In quante cause di divorzio compare la violenza fisica?
Una su 10. Ma esiste anche la violenza morale. Raramente a mollare sono le donne. Loro restano il più bel dono che Dio ha fatto all’umanità. S’innamorano dell’amore e lo confondono con un marito.
Da quanti anni gira nei tribunali?
Da 57. Nel primo processo affiancavo mio padre. Difendeva una donna che aveva insultato un’altra signora con parole irriferibili. Il capo d’imputazione fu letto da un cancelliere proveniente da Salerno. Il quale, dopo aver elencato alcuni improperi del tipo «troia» e «puttana», se ne uscì con un «magnaòssei». Al che il pretore, che era originario di Napoli ma anni prima si era imposto d’imparare alla perfezione il dialetto veronese per poter meglio giudicare, lo corresse: «Magna osèi». «Che significa, vostro onore?», domandò stupito il cancelliere. E lui: «Glielo spiego dopo». Uno dei miei orgogli è quello d’essere stato nominato a 28 anni vicepretore onorario e poi anche inserito nel collegio penale del tribunale. Scrissi sentenze per tre lustri. Senza percepire una lira, per mia scelta. Al contrario dei giudici onorari che oggidì guadagnano 2.000 euro al mese.
Non è l’unico incarico per il quale non s’è fatto pagare, mi risulta.
Quando l’allora sindaco Michela Sironi Mariotti mi chiese di prendere in mano l’Amia, posi come condizione quella di non essere retribuito. Vendetti l’auto che mi spettava come presidente e bandii una gara d’appalto per dare gli Ape chiusi agli spazzini, che andavano in giro d’inverno alle 5 di mattina con i motofurgoni scoperti ed erano sempre malati. Idem da presidente dei Magazzini generali: niente stipendio. Lo consideravo un servizio reso alla città.
All’Amia i dipendenti la ricordano ancora con nostalgia.
Dipenderà dal fatto che uno dei miei primi atti fu quello di affidare la commissione aggiudicatrice per l’acquisto degli automezzi a un ingegnere che mi feci indicare dal procuratore capo Guido Papalia, evitando così di coinvolgere negli appalti la dirigenza interna.
Non mi ha ancora spiegato perché un tempo le famiglie non andavano a remengo.
Prima del 1975 la separazione poteva avvenire solo dimostrando la colpa del coniuge: adulterio per la moglie, concubinato per il marito. In pratica gli sposi erano costretti a stare insieme.
I padri della Repubblica, con lungimiranza, scrissero nell’articolo 29 della Costituzione che l’Italia «riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e che esso è basato «sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Ma i politici per 27 anni non hanno fatto nulla affinché questa parità fosse garantita. Conosco a memoria una sentenza emessa dalla Cassazione nel 1965: «Non commette abuso di potestà maritale quel marito che, anche con mezzi coercitivi fisici, induca la moglie ad abbandonare l’attività lavorativa per dedicarsi esclusivamente alla cura della famiglia». Traduzione: se non resti chiusa in casa, io, marito, prima ti picchio e poi chiedo la separazione per colpa, il che significava l’affidamento dei figli al padre. E ci stupiamo che ancor oggi gli uomini uccidano le fidanzate o le mogli quando vengono lasciati? Si è dovuto aspettare fino al 1975 prima che per la coppia fossero statuiti stessi diritti e stessi doveri: in precedenza, per l’articolo 144 del codice civile, il marito era «il capo della famiglia». E ci siamo arrivati su pressione dell’Europa.
Sembra che per lei la famiglia sia solo un contratto giuridico.
Si sbaglia. Per me è la pietra d’angolo della società.
(L’Arena)