Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2020
Modena ha perso la partita sull’aceto balsamico
Durante Sanremo Armando De Nigris, il più grande produttore ed esportatore italiano di aceto balsamico, ha voluto assicurarsi almeno uno slot pubblicitario per ogni serata del festival. Su quale prodotto ha puntato? Non certo su un nuovo aceto balsamico Igp: sul suo nuovo aceto di alcol, ha puntato. Buono (anche) come detergente per la casa. «Devo garantire il posto di lavoro dei miei 250 dipendenti – ha detto De Nigris – se il mercato del balsamico ha saturato il mercato non mi resta che diversificare e aprirmi nuove strade, dall’aceto di mele a quello di barbabietole».
Cosa è successo all’aceto balsamico italiano? L’ultima cannonata, in ordine di tempo, è arrivata dalla sentenza della Corte Ue del 4 dicembre scorso, che ha decretato che le parole “aceto” e “balsamico”, prese singolarmente, possono essere usate da chiunque senza per questo violare l’esclusiva del consorzio italiano. «Il primo nostro competitor in Europa nel segmento dei condimenti – ricorda De Nigris – è un tedesco che fattura 500 milioni all’anno. Il fatturato di tutto l’aceto balsamico prodotto nelle acetaie emiliane vale circa 450 milioni di euro: se questo produttore tedesco decide di scendere in campo utilizzando la parola “balsamico”, è evidente che siamo tutti finiti».
Ma prima ancora che la sentenza europea arrivasse, la crescita della produzione di aceto balsamico – tra l’Igp e le due Dop – già dava segni di diminuire fino praticamente a stagnare, come confermano gli ultimi dati Nielsen. E dire che nei primi anni dopo la nascita del consorzio Igp, che da solo rappresenta circa il 99% dell’aceto balsamico fatto in Italia, l’andamento della produzione era scoppiettante e l’export cresceva a doppia cifra. Così oggi, a interrogarsi sul futuro dell’aceto balsamico italiano, non è solo il suo primo esportatore, ma sono anche le centinaia di piccoli produttori emiliani che puntano il dito contro chi ha abbassato troppo l’asticella. «Il balsamico è stata tra le più grandi occasioni perse del mondo agroalimentare italiano degli ultimi decenni», sostiene Andrea Bezzecchi, produttore da 25 anni di aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia Dop (e presidente, in scadenza di mandato, dell’omonimo consorzio).
Eppure, i modelli per fare diversamente in Emilia Romagna c’erano: «Basti pensare al Parmigiano Reggiano – continua Bezzecchi – i cui produttori hanno incominciato ad organizzarsi per tutelarlo all’inizio del secolo scorso, facendo poi nascere nel 1934 un consorzio che per primo parlava di zona d’origine e criteri di qualità minimi già molto alti». Insomma, il fatto che la parola “balsamico” fosse prevista dal punto di vista normativo per una ricetta dagli standard qualitativi troppo bassi, che non fosse in grado di distinguerlo da un prodotto fatto altrove, senza legame con il territorio, è stato la base per un processo di banalizzazione che poi ha tolto ogni possibilità di tutela al termine “balsamico”.
Il consorzio dell’Igp naturalmente si difende: «Lo scarso aumento della produzione è colpa della stagnazione dei consumi – dice il suo direttore generale, Federico Desimoni – mentre la battaglia in Europa non è finita: attendiamo ancora il terzo grado di giudizio, previsto fra pochi mesi. E se anche questo non fosse favorevole a noi, siamo pronti a intentare nuove cause contro chiunque faccia un utilizzo che riteniamo scorretto del termine balsamico, a tutela dei nostri produttori».
Per De Nigris, invece, la strada non è questa: «Dobbiamo copiare dalle altre eccellenze regionali, come il Prosciutto di Parma. Per esempio, potremmo inserire nel disciplinare dell’aceto balsamico Igp un giusto richiamo all’italianità del prodotto».