Corriere della Sera, 25 febbraio 2020
Nessuno è disposto a morire in Afghanistan
La storia si ripete. Come era già accaduto per il Vietnam, il 9 dicembre 2019 il «Washington Post» ha pubblicato un’ampia raccolta di documenti riservati sulla guerra di Afghanistan. Documenti, ha scritto il giornale, che mostrano come «ufficiali statunitensi di alto livello abbiano omesso di dire la verità sul conflitto afgano durante tutti i 18 anni della campagna, fornendo dichiarazioni ottimistiche che sapevano bene essere false e nascondendo le prove inequivocabili di come la guerra fosse ormai diventata impossibile da vincere». Ogni informazione, proseguiva il «Washington Post», «veniva alterata per presentare la migliore immagine possibile di quel che andava accadendo… Anche le indagini sul campo erano del tutto inattendibili, ma servivano a corroborare l’idea che tutto ciò che stavamo facendo fosse giusto». La macchina militare era diventata «un’organizzazione finalizzata soltanto a perpetuare sé stessa». Era intervenuto anche il «New York Times» che aveva giudicato i papers pieni di «avvertimenti straordinariamente circostanziati da parte di ufficiali americani di altissimo livello sul fallimento a cui si stava andando incontro». Del resto già nel 2005 il generale Douglas Lute aveva candidamente ammesso che gli americani non avevano «la minima consapevolezza di quel che fosse l’Afghanistan». E «neppure la più vaga nozione di quello che stavamo cercando di ottenere» dalle parti di Kabul.
Non poteva perciò andare a finire altrimenti la lunga, interminabile, guerra iniziata nel 2001, all’indomani dell’11 settembre. Che ora è in procinto (forse) di concludersi. Guerra della quale si occupa Gastone Breccia in Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, edito dal Mulino. Per comprendere che cosa è davvero accaduto giovano le reminiscenze della guerra anglo-afgana (1878-1881). Ma ancor più la considerazione che tutto quel che è accaduto negli ultimi decenni traeva origine dai fatti del 1973. Una prima data da ricordare se si vuole ricostruire «la discesa dell’Afghanistan nell’abisso di violenza fratricida da cui non è più riuscito a risollevarsi», scrive Breccia, è infatti quella del 16 luglio del 1973. Quel giorno Mohammad Daoud Khan, cugino del re Zahir Shah – ma anche suo ex primo ministro, fautore dal 1955 di un’alleanza con l’Unione Sovietica – prese il potere con l’appoggio del Partito democratico del popolo afgano, finanziato da Mosca. Daoud revocò la Costituzione liberale di Zahir Shah e varò un programma di riforme sgradito alle classi dirigenti islamiche. Passarono quasi due anni e – come ben analizza Claudio Bertolotti in Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga (Start InSight) – nella primavera del 1975, Ahmed Shah Massoud, un combattente tagiko ventitreenne, guidò il primo attacco di mujahidin contro le forze governative nella valle del Panjshir. Daoud intuì il pericolo insito in questa iniziativa e cercò di difendersi prendendo le distanze dall’Urss. L’Unione Sovietica – spiegano in dettaglio Giorgio Battisti e Federica Saini Fasanotti nella loro Storia militare dell’Afghanistan. Dall’impero dei Durrani alla Resolute Support Mission (Mursia) – reagì appoggiando un golpe ordito da Nur Mohammad Taraki (27 aprile 1978). Daoud, suo fratello Naim e molti membri del governo (compresi i ministri dell’interno e della difesa) furono giustiziati. Ma non finì lì. Nel 1979 la diciassettesima divisione dell’esercito stanziata a Herat si ammutinò e il presidente Taraki diede ordine di bombardare la città.
Fu in questo momento che – come ha ben ricostruito Michael Hastings in Pazzi di guerra. L’incredibile storia del generale McChrystal e dell’intervento americano in Afghanistan (Garzanti) – Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, convinse l’allora presidente Jimmy Carter a inviare i primi aiuti ai mujahidin afgani; «un altro passo verso l’allargamento del conflitto», commenta Breccia, «che stava chiaramente sfuggendo di mano al governo di Kabul». Poco dopo Taraki venne ucciso e, quasi senza che se ne accorgesse, l’Urss di Brežnev fu risucchiata per intero nel conflitto. La guida del Paese passò a Babrak Karmal, poi a Mohammed Najibullah. Ma i nemici islamici aiutati dagli americani erano sempre più insidiosi. Finché nella seconda metà degli anni Ottanta Mikhail Gorbaciov decise di ritirare le proprie truppe da Kabul. I primi dodicimila militari sovietici rientrarono in patria – come stabilito negli accordi di Ginevra – il 15 maggio 1988.
La guerra avrebbe potuto concludersi meno di un anno dopo, il 15 febbraio 1989 allorché il generale Boris Gromov attraversò a piedi il «ponte dell’amicizia» sull’Amu Darya, seguendo l’ultima colonna corazzata con le bandiere rosse al vento e lasciandosi dietro 13.883 morti ufficialmente riconosciuti. Invece era solo il passaggio alla fase due. I mujahidin ripresero ancora la via delle armi. E nessun governo di Kabul conobbe stabilità. Neanche relativa.
Alla fine dell’estate 1994 i talebani del mullah Mohammad Omar passarono all’offensiva e qui accadde qualcosa di inaspettato: i mujahidin di Gulbuddin Hekmatyar che (finanziati in parte dagli americani) avevano combattuto l’Urss, passarono dalla parte del mullah Omar. Il quale nel settembre 1995 prese il potere, si fece riconoscere come erede di Maometto, diede ospitalità a Osama Bin Laden e nel marzo del 2001 – per mostrare al mondo la propria intransigente determinazione – distrusse la statue dei Budda di Bamyan. Poco dopo venne l’attacco alle Torri Gemelle e l’Afghanistan del mullah Omar fu nuovamente trascinato nelle fiamme. Ora è venuto il tempo dei bilanci: come hanno combattuto gli occidentali questa guerra fortemente voluta dagli Stati Uniti? Male. Fin dall’inizio, sottolinea Breccia, si è capito che in loro mancava la «disponibilità a morire», senza la quale ogni guerra è persa in partenza.
In realtà la decisione di non prendere parte alla guerra, se non in modo defilato, risale a otto anni prima. Il 3 ottobre 1993 a Mogadiscio diciotto americani erano stati uccisi nel corso di un conflitto terribile con i miliziani di Mohammad Farah Aidid. La battaglia, ricorda l’autore, ebbe conseguenze drammatiche. L’amministrazione Clinton, infatti, decise dall’oggi al domani di ritirare il proprio sostegno alla missione delle Nazioni Unite in Somalia, «ammettendo così la sconfitta di fronte alle bande di un criminale che aveva ai propri ordini diretti poco più di duemila armati». Le immagini dei cadaveri militari americani oltraggiati dalla folla sconvolsero l’opinione pubblica statunitense, che reagì «con rabbia e insofferenza» di fronte «al sangue versato in una terra lontana che molti avrebbero faticato ad individuare su una certa geografica», per «portare soccorso a un popolo che non mostrava alcun desiderio di aiuto da parte degli stranieri». Per di più Clinton si accingeva ad affrontare le elezioni di medio termine e gli fu immediatamente chiaro che, «se voleva conservare il consenso necessario per vincerle», qualsiasi «considerazione umanitaria, politica o strategica doveva passare in secondo piano».
Così, due giorni dopo la battaglia, «la più grande potenza militare della storia decise di sospendere ogni azione militare e sgombrare il campo appena possibile». Le perdite erano state lievi, se messe a paragone con quelle delle guerre passate: diciotto uomini («mentre in un singolo giorno di combattimenti della Seconda guerra mondiale ne potevano restare uccisi migliaia»). Ma il peso politico di quelle poche vittime si era dimostrato «insostenibile». E da quel giorno «il mondo delle guerre» non fu più lo stesso.
A tale proposito, Breccia propone una considerazione (avanzata già ai tempi da Massimo Fini) da lui definita «banale» ma che invece banale non è: «distruggere le coltivazioni di oppio e i laboratori dove si produce eroina può essere utile»; ma «farlo dal cielo colpendo alla cieca villaggi dove vivono civili inermi non ha senso». E proprio perché non ha senso, la pace «l’abbiamo sfiorata e perduta». I colpi «vibrati più o meno alla cieca contro nemici cui continuiamo a dare un nome di comodo sono in realtà diretti altrove: non stiamo più cercando di costruire la pace, stiamo seminando il caos».
Le speranze di costruire un Paese stabile, democratico, capace di integrarsi nell’economia globale, «sono tramontate da tempo». Se viene ripetuta qualche vecchia parola d’ordine, «è solo per spargere una cortina di fumo sulle operazioni reali». Che sono di destabilizzazione, non di pacificazione. Perso per perso, «stiamo cercando di lasciare indietro una terra ingovernabile». E chi verrà dopo, «certo non sarà nostro amico».
Questa, scrive Breccia, «è la terribile ma necessaria etica della guerra». In un mondo migliore, aggiunge, «quando risolveremo le nostre contese senza far ricorso alla violenza, storie di uomini che si uccidono in maniera legittima – perché anche questo è la guerra: uccidere senza commettere un crimine – saranno forse materia di racconti per spaventare i bambini». Ma «finché saremo costretti a combattere i nostri nemici, dovremmo anche essere capaci di accettare la morte come esito possibile della lotta». Noi occidentali, scrive ancora Breccia, abbiamo tentato di sottrarci a questa necessità. Siamo così riusciti a rendere la guerra, oltre che terribile, anche ignobile: «facendola fare ad altri per nostro conto» o «sforzandoci in ogni modo di eliminare i suoi rischi inevitabili a scapito di chi è costretto a vivere nei luoghi dove la si combatte».
Le proxy wars – le guerre per procura – non sono certo un’invenzione dei tempi attuali: gli imperi, nel corso dei millenni, hanno spesso utilizzato dei «clienti» per combattere in conflitti limitati, quasi sempre «ai margini della loro sfera di dominio diretto». Qual è allora la diversità da quel che accade oggi? La differenza maggiore con il passato, risponde Breccia, sta nell’attuale tendenza a trasformare le proxy wars «da strumento occasionale a sistema di intervento preferito, se non esclusivo». L’Occidente democratico non vuole più combattere in prima persona: avrebbe i mezzi per farlo, sia umani che materiali, «ma il costo politico di un impegno diretto è diventato troppo alto». Questa è la lezione dell’Afghanistan.
Certo, scrive Breccia, non è detto che sia un male. Forse siamo all’inizio di «una lunga strada che condurrà a un mondo più pacifico». Questa «autolimitazione nell’esercizio della violenza organizzata» ci offrirà un giorno un vantaggio morale. E ciò avverrà probabilmente «tra qualche anno, quando sarà necessario imporre nuove regole di convivenza per trovare una via d’uscita alla crisi dell’eco-sistema Terra». Forse. Ma non ancora. Oggi, è l’opinione di Breccia, «la situazione è doppiamente amara, sconfortante, sbagliata». Perché «l’Occidente non sa più combattere le proprie guerre», ma «le combatte lo stesso». Non vuole subire perdite, ma accetta di «far morire gli altri». Il che significa «non solo eliminare con ogni mezzo i nemici o accettare senza alcuna difficoltà un alto numero di caduti tra i proxies alleati, ma tollerare il massacro di civili inermi presi tra due fuochi». E anche questo è un «eufemismo ipocrita». Dal momento che «non si tratta di innocenti uccisi casualmente nelle fasi concitate di un combattimento». Ma di «centinaia e centinaia di inermi sepolti sotto “bombe intelligenti” e proiettili di artiglieria, utilizzati senza risparmio per evitare che i soldati occidentali schierati sul terreno possano correre il rischio di restare feriti o uccisi». Anche pochi, anche uno soltanto.
Ciò che, conclude Breccia, conduce a un disastro morale «le cui proporzioni e le cui conseguenze sfuggono alla maggior parte di noi». Se «si rifiuta la responsabilità di combattere delegandola ad altri» o se «si combatte in maniera tale da far percepire la propria debolezza», il destino è «segnato». Forse assai più di quanto ci si possa immaginare. Come insegna l’Afghanistan.