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 2020  febbraio 24 Lunedì calendario

I giapponesi che decidono di sparire

Elimina ogni prova della tua esistenza. Chiudi la valigia, poi la porta per sempre. Non lasciare alcuna traccia nelle stanze e nelle vite di chi ti ha amato e appena capirà cosa è successo, comincerà a cercarti. Ma invano. Risulterai, da allora in poi, assente per sempre all’appello: ma senza morire, sei svanito. È la storia delle anime perdute giapponesi. Si chiama johatsu, ovvero “evaporazione”. Decine di migliaia di nipponici decidono di ricorrervi ogni anno.
Uomini e i loro demoni. Perdita dell’amore o del lavoro. Debiti, fallimenti, fine di una relazione, divorzi difficili, delusione delle aspettative. Ma a volta basta anche la bocciatura ad un esame. Ognuno delle migliaia degli “evaporati” giapponesi ha un motivo diverso per ricominciare una seconda, distante vita, aliena in tutto da ciò che la precedeva. Non diventi un cadavere, ma un fantasma irrintracciabile. È una forma di decesso sociale in una nazione abituata, per cancellare la vergogna dell’errore, a ricorre al suicidio il 60% in più che nel resto del mondo secondo la Who, Organizzazione mondiale della salute, e che ha codificato, sin dal tempo dei samurai, anche il seppuku, il rituale giusto per togliersi la vita.
Chi però ricorre al johatsu, prima di scomparire, progetta la sua “evaporazione” con disciplina. Una storia emblematica che ha colpito più delle altre la nazione è quella di Suyoshi, fratello di Naoki Miyamoto, i cui oggetti sono stati ritrovati su un traghetto partito da Tokyo, e che ne attende il ritorno dal 2012. Poiché non esiste una legge che permette alla polizia di controllare informazioni bancarie e personali degli scomparsi, gli evaporati risultano impossibili da ritrovare. In assenza di una banca dati condivisa sul fenomeno, non si conosce il numero reale dei desaparecidos asiatici. Secondo il magro, calvo, anziano Hiroshi Tahara, ex poliziotto in pensione, membro di Mps, un’associazione che aiuta i parenti, almeno 10 mila persone scompaiono ogni anno. Poveri e ricchi scompaiono. Occupati e disoccupati evaporano. Uomini e donne. Nelle province e nelle città. Un’intera Atlantide di fantasmi che stanno sbiadendo in foto è alle pareti del Shinjuku Sumitomo, edificio del Mps, dove anche i volontari spesso hanno suicidi o sparizioni di amici o familiari in biografia.
Poiché il johatsu sta diventando una pratica diffusa, è diventato un business. Pofessione: yonigeya. In una traduzione non approssimativa: “Organizzatori di fughe notturne”. Il johatsu richiede la pianificazione di un mistero, l’organizzazione di un’enigma che alcuni professionisti, esperti nel ricreare l’assenza dei loro clienti, specialisti nel trasloco di destini interi, possono concedere dopo qualche telefonata e molti yen.
Mancano dati ufficiali sul numero dei johatsu, come stime reali su quante persone o società si siano specializzate nel fornire la logistica necessaria per svanire. Se i clienti vogliono sparire nel buio, loro agiscono in una zona grigia. Svuotano la casa mentre gli altri residenti sono assenti, forniscono documenti falsi, spostano fino all’ultimo oggetto appartenuto al cliente, che per non destare sospetti, non ha abbandonato alcuna delle sue abitudini. Se si tratta di mariti, le storie delle loro evaporazioni sono tutte così parallele da risultare identiche: escono con cravatta e borsa da lavoro come tutti i giorni, ma i loro figli non sanno che stanno ricevendo il loro saluto per l’ultima volta.
Senso di colpa: è il motivo che spinge a scappare, quello che però gli evaporati condividono con le loro famiglie. Famiglie che, dopo la sparizione, pensano di non aver fatto il necessario per aiutarti in tempo.
“Muori, pazza”. Era quello che sentiva tutti i giorni Miho Saita quando suo marito la picchiava, in uno Stato dove solo il 3% delle donne denuncia le violenze tra le mura di casa e dove una su tre le subisce. Insieme ai suoi lividi, cicatrici e il cane, Miho è scappata in auto da sola da Kanagawa. Poi ha deciso di fare dell’arte della fuga la sua professione. Lei è la destinazione finale di molte donne che non hanno trovato aiuto nelle stazioni di polizia. Oggi è la sorridente amministratrice della Yonigeya Corporation. Una sua foto è nella pubblicità della società: lo spot informa che si tratta dell’ “unica organizzazione gestita da chi è stato perseguitato e sa cosa sia la fuga. A coloro che vogliono vivere una vita nuova e spostarsi senza essere rintracciati, offriamo: consulenza legale, spostamenti notturni o improvvisi, introduzione alla destinazione di trasferimento, rifugio”. Più complicata è la fuga, più alto il prezzo richiesto e si può superare il milione di yen 8-9 mila euro). Nemmeno la memoria rimane: alla fine delle missioni, le yonigeya distruggono i documenti per discrezione e sicurezza.
Gli evaporati, almeno alcuni di loro, sono stati raccontati nel primo libro dedicato a loro. “È un tabù, qualcosa di cui non puoi parlare davvero, ma le persone possono scomparire perché c’è un’altra società, sotto quella giapponese. Se lo fanno è perché sanno che troveranno un modo per sopravvivere”. Dopo sei anni trascorsi a seguire le ultime tracce di chi ha cercato di non lasciarne dietro di sé nemmeno una, Lena Mauger, giornalista francese, insieme al suo compagno fotografo, Stephane Remael, lo racconta dopo essere riuscita a raggiungere posti come Sanya, dintorni di Tokyo, un punto geografico sulla carta geografica. In un universo che gira tra contanti e attività illegali, negli hotel dove le stanze non hanno un bagno ed è vietato parlare dopo le sei di sera, la Mauger ha parlato con Norihiro. Un uomo di 50 anni, ma un fantasma da dieci. Un ingegnere che tradiva sua moglie, si sentiva in colpa per suo figlio, ma ha deciso comunque di cancellarsi dall’album di famiglia dopo la perdita del lavoro. Dopo il licenziamento, ha continuato ad uscire tutte le mattine alla stessa ora, ma rimaneva in auto in silenzio, fino a che la vergogna lo ha sopraffatto e invece di vincerla, ha ceduto all’evaporazione.
Alcuni, ma pochi, sono solo alla ricerca di un nuovo mondo, nuova vita, di un punto da cui ripartire, una tabula rasa dove dispiegheranno le loro nuove esistenze. Al johatsuè stato dedicato un programma televisivo degli anni ’90 e, prima ancora, se ne parlava nelle sale buie al cinema. “Conoscete quest’uomo? Si sta nascondendo da qualche parte. Forse vicino a voi”. Dell’impiegato Tadashi Oshima, 32 anni, scorrono le foto in bianco e nero in “Un uomo svanisce”, film profetico del 1967 del regista Shohei Imamura, la cui macchina da presa già decenni fa seguiva la ricerca della fidanzata di quell’uomo così comune. “Investigazione nei misteri di una vita”. Prima del ragazzo, il vero motivo della ricerca era la ragione del gesto compiuto, che oggi è destino di molti, una scelta non colta ancora dalla società nipponica che però la affronta da secoli. Già nell’antichità le persone decidevano di “evaporare”. Si chiamava però kamikakushi, cioè “sparizione divina”, perché gli abitanti dei villaggi preferivano pensare che a portare via i loro cari fosse una forza superiore. O era almeno il modo in cui la coscienza di un popolo, dinanzi a un’assenza troppo dolorosa, aveva deciso di trovare pace.