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 2020  febbraio 24 Lunedì calendario

Riflessioni a margine di Sherlock Holmes

Sherlock Holmes, protagonista dei libri di Arthur Conan Doyle, non prova alcun interesse per quella che, abitualmente, noi chiamiamo realtà: la realtà di Rabelais o della Princesse de Clèves o del Tom Jones o diMadame Bovary o degli innumerevoli romanzi del Diciassettesimo, Diciannovesimo o del Ventesimo secolo.
Forse (ma non è sicuro), potrebbe interessargli la realtà lontana, lontanissima, del Ventiduesimo secolo. Ma è meglio dire che egli odia, detesta, esecra qualsiasi realtà: appena la vede, fa una smorfia, o uno scherno, o una beffa. Nella letteratura, o nella pittura, è una condizione rarissima, quasi inesistente.
Sherlock Holmes ama una sola specie di realtà: il minimo. Per esempio, sebbene sembri assurdo, gli piace la cenere di una sigaretta, la polvere sparsa su un mobile, le orme sconosciute trovate su un viale o nella stanza di un criminale. Se guarda la polvere e la cenere, la guarda con una lente di ingrandimento; e allora se la mano possiede la sua lente, che è sempre alla caccia dell’impossibile e dell’inverosimile, una specie di sorriso distende il suo volto abitualmente contratto e aggrottato. Osserva, scruta, indaga: quasi sempre è ironico, sebbene non sappiamo affatto perché.
Il suo maestro remotissimo (ma non ricordato) è Michel de Montaigne, un altro è Sterne, un altro è Edgar Allan Poe; un altro ancora è Baudelaire. Dickens gli piace molto meno: ama l’ironia ma non gli piace (o gli piace poco) il sistema del comico, tanto più se scatenato e colorito e chiassoso; perché il comico ha un volto solo, o pochi volti che si confondono tra loro. Le dita agilissime di Sherlock Holmes svolazzano di qua e di là, un po’ dappertutto, toccano, prendono, sbottonano, esaminano, sebbene egli pensi «che nulla è insignificante per una mente superiore». Sherlock Holmes di solito è di buon umore: gli occhi scintillano, brillano, a volte non sappiamo perché. Molto spesso non sembra affatto umano (se la parola umano ha un senso), e scivola sui tetti, simile a un gatto o ad una lucciola. Gioca, gioca e non si stanca mai, mentre lavorare lo spossa e l’abbrutisce. Talora è preda di una incontenibile eccitazione nervosa. La sua ironia è una forma particolare di nevrosi. A volte pronuncia massime taglienti: «Il mondo è pieno di cose ovvie, che nessuno nota neppure per caso».
Ragiona, oppure non vuole ragionare affatto. Si compiace di essere un artista, o di fare la parte dell’artista, al contrario del suo amico dottor Watson, assieme al quale abita al 221 Baker Street, a Londra. La sua intuizione è rapida, sottile, e prevede gli eventi futuri con una facilità sconvolgente, o che almeno sconvolge il pigro e modesto dottor Watson.
Non potremo mai immaginarlo vivere a Parigi, che è così noiosa e ripetitiva, e nemmeno negli Stati Uniti, come qualche anno prima Henry James. Non possiamo immaginarlo che a Londra, la patria di Sterne e di Conrad, “il grande pozzo nero” che raccoglie tutti gli sfaccendati e i fannulloni dell’impero inglese: questa lurida Londra, spossata dal Tamigi, solcata dai battelli fluviali, popolata da finti aristocratici, con i lampioni che emanano una luce mutevole ed evanescente; il chiarore giallo delle vetrine, con le persone che passano dalla tenebra alla luce e dalla luce alla tenebra, e talvolta avanzano a fatica in un “urlante deserto”. Ma l’aura del mattino è dolcissima. Le nuvolette sembrano volteggiare «come la piuma di qualche gigantesco fenicottero». Come sappiamo, Sherlock Holmes insegue “l’impossibile”; e quanto resta, «per quanto improbabile deve essere la verità».
Se volessimo, potremmo raccontare la storia del romanzo dell’Ottocento come la storia di innumerevoli delitti, o come quella di un solo delitto ripetuto all’infinito. Sherlock Holmes dice: «Nella matassa incolore della vita corre il filo rosso del delitto, e il nostro compito consiste nel dipanarlo, nell’isolarlo, nel metterlo in luce, istante dopo istante».
Egli coltiva il delitto, forse lo esalta e lo esagera: comunque lo analizza, lo scruta, lo documenta, lo porta alla luce, fino a quando il delitto scompaia dal mondo. Ma è, poi, vero? Molto spesso non scorge soltanto il delitto: vuole che il delitto esista, e non gli importa assolutamente nulla che venga cancellato.
Come si fa a studiare il delitto? Al contrario di ciò che dice il dottor Watson, scoprire il delitto non è affatto una scienza esatta. Sherlock Holmes ha «una illimitata capacità di curare i particolari» usando l’immaginazione, servendosi di tutti i sensi, senza trascurare nemmeno l’olfatto; studia la forma delle mani, delle orecchie, il tipo di occhiali, delle scarpe e dei loro lacci, i pantaloni, i polsini, evitando la cosa più rara: le emozioni. Come scrive intelligentemente Margherita Oggero nella prefazione al volume Sherlock Holmes. Tutti i romanzi (Einaudi), bisogna dedurre: che è l’arte suprema per i cacciatori dei delitti, bisogna avere tutti gli indizi, perché «è un gravissimo errore formulare delle ipotesi senza avere tutti gli indizi in mano».
L’ultimo grande tema di Arthur Conan Doyle è la droga, e l’arte e il dominio della droga. Sherlock Holmes prende un flacone dalla mensola e una siringa epidermica da un elegante astuccio di pelle. Con le lunghe dita, bianche e nervose, inserisce l’ago sottile all’estremità della siringa e arrotola la manica sinistra della camicia. Si inietta una soluzione di cocaina al sette per cento (così, almeno, egli dice). Infine infila a fondo la punta acuminata, preme sull’esile stantuffo e poi si abbandona voluttuosamente nella poltrona di velluto con un profondo sospiro di soddisfazione. «Oh, per me, dice ad un amico, resta sempre la boccetta della cocaina». Così pensa di combattere la depressione e lo spleen: non è certo che abbia ragione.
Sherlock Holmes eccita artificialmente la ricchezza delle sue sensazioni, il suo tono mentale, la sua astuzia, la sua ironia, il suo febbrile entusiasmo. Abbandona il tono normale dell’esistenza umana, trascurando quella realtà che odia tanto. Penetra nel regno dell’impossibile e dell’improbabile e dell’inverosimile. È un rischio, un grande rischio: qualcosa che potrebbe essere mortale. Ma Sherlock Holmes, come Conan Doyle, è disposto ad affrontare qualsiasi forma possibile di morte.
Forse il suo desiderio è un altro. Non cerca la morte, ma la lontananza. «”Non dico questo” – proclama nelle ultime righe de La valle della paura. I suoi occhi paiono fissare qualcosa di lontano nel tempo. “Bisogna che lei mi dica del tempo – molto tempo!”. Noi rimanemmo così in silenzio per alcuni minuti, mentre gli occhi profetici di Sherlock Holmes si sforzano di perforare il velo del futuro con la potenza del loro sguardo». Nessuno ci potrà dire dove giungono gli occhi profetici di Sherlock Holmes. Chissà dove: in quale lontananza, in quale visione, in quale futuro, in quale tremendo impossibile.