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 2020  febbraio 23 Domenica calendario

Mussolini urbanista. Un saggio di Paolo Sidoni

Sono trascorsi centocinquant’anni dalla breccia di Porta Pia: l’anniversario costituisce un’occasione propizia per rileggere le profonde trasformazioni subite dalla città eterna, sia in età liberale, sia durante il ventennio, al quale si deve gran parte dell’impianto urbano quale ancor oggi appare. Su quest’aspetto interviene, senza dimenticare antefatti e successivi sviluppi, il corposo saggio di Paolo Sidoni La Roma di Mussolini (Newton Compton Editori, pagg. 454, euro 12). Quando, nel giugno del 1871, Vittorio Emanuele II s’installa al Quirinale, Roma appare inadeguata a esercitare il ruolo di centro politico del nuovo regno. Come annota nel 1880 il veterano garibaldino Giuseppe Nuvolari, «Se avessi conosciuto Roma come la conosco oggi, v’assicuro che non mi sarei mai cimentato nel Roma o morte!». La magnificenza ormai appannata del passato millenario si mescola alle inadeguatezze del presente: sporcizia, case fatiscenti, viabilità anche per l’epoca del tutto insufficiente. Il pittoresco, caro ai viaggiatori del Grand tour, è d’ostacolo alle esigenze di una capitale moderna. L’Italia nuova si mette al lavoro. Nel 1871 si allestiscono Montecitorio e palazzo Madama per ospitare camera e senato, nel 1878 comincia la costruzione del Vittoriano, tempio laico dell’unità nazionale, sorgono gli edifici dei ministeri e il nuovo quartiere di Prati, si realizzano i muraglioni per contenere il Tevere. Nasce anche la speculazione edilizia, si susseguono i piani regolatori che, com’è destino degli strumenti urbanistici, invecchiano prima d’esser attuati, le casse del Campidoglio sono esangui, le finanze pubbliche hanno il fiato corto. 

VECCHI E NUOVO PROBLEMI
All’arrivo del fascismo, Roma è capitale d’Italia da mezzo secolo e ancora appare irrisolta. Il mondo è cambiato, ai vecchi problemi se ne aggiungono di nuovi, servono strade adatte alla circolazione delle automobili che cominciano a diffondersi, la popolazione capitolina aumenta velocemente, c’è urgenza di case, anche per chi non se le può permettere. «Bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto alla antica e alla medievale, bisogna creare la monumentale Roma del ventesimo secolo», promette Mussolini nel 1924. Si tratta dunque di costruire una città nuova, da giustapporre e integrare a quella storica: un’impresa da far tremare i polsi. La prima opera pubblica realizzata è la ferrovia per Ostia, datata 1925. Due anni più tardi comincia la costruzione del Foro Mussolini, oggi Foro italico, che sarà ultimato una decina d’anni più tardi. Si mette mano agli sventramenti: il “piccone risanatore” si abbatte prima sul fitto tessuto edilizio nell’area dove negli Trenta sarà ricavata via dell’Impero, oggi dei Fori imperiali, poi nel 1936 tocca alla spina di borgo, attorno al Vaticano, così da lasciare spazio a via della Conciliazione, che vedrà la luce soltanto nel secondo dopoguerra. Negli stessi anni sorge Cinecittà, nel 1939 è la volta della Farnesina, concepita come Casa madre del fascio, ma subito destinata al ministero degli Esteri. Lo stesso anno viene approvato il progetto definitivo per l’E42: non si tratta di edilizia effimera per l’Esposizione universale di Roma, ma d’un ambizioso quartiere direzionale. Uno dei meriti di Sidoni è d’aver ricostruito, grazie a pazienti ricerche d’archivio, l’iter amministrativo delle singole realizzazioni, nel quale la contorsione burocratica si mescola all’avidità dei costruttori e alle direttive della politica, sullo sfondo delle croniche ristrettezze economiche. Ecco il duce che s’inquieta, chiedendosi quanto tempo occorra perché alla prima pietra segua la seconda, ecco i prestiti degli Stati Uniti che negli anni Venti finanziano le opere del regime. Il testo segue anche le vicissitudini dell’edilizia residenziale, che ha disegnato il volto della capitale forse ancor più dei grandi palazzi pubblici.

GLI STILI
La Roma di Mussolini dimostra come non si possa parlare di architettura fascista, ma di architettura nel fascismo, che di volta in volta attinge ai novecentisti – collocati da Rossana Bossaglia nel grande alveo del Déco europeo – o ai razionalisti, lasciando spazio anche a un eclettico eterodosso qual era Armando Brasini. Per limitarci a qualche esempio, il monumentalismo di Marcello Piacentini si accosta alla purezza espressiva di Adalberto Libera e al rigore compositivo di Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, che firmano il progetto del Danteum, rimasto purtroppo sulla carta. Nel ventennio lavorarono i più rappresentativi esponenti di linguaggi diversi, se non contrastanti, che disegnano un efficace ritratto di un’Italia che ambisce alla modernità seguendo ciascuno il proprio percorso. Troppi, per lo spazio d’una recensione, i nomi che meriterebbero d’esser ricordati. Una storia che continua: nel 1965, durante un soggiorno romano, Robert Venturi enucleò il Postmodern ispirandosi a Brasini. Dagli anni Trenta alle pulsioni del secondo Novecento.