Avvenire, 23 febbraio 2020
Boris Johnson vuole più cinesi e indiani
Meno europei, più cinesi e indiani. È questo il profilo della società britannica post Brexit delineato dalle «rivoluzionarie» linee guida del governo conservatore di Boris Johnson sull’immigrazione. L’annuncio del nuovo modello a punti che, a partire dal primo gennaio 2021, regolerà per cittadini europei ed extraeuropei l’accesso al mercato del lavoro nel Regno Unito è stato celebrato dai media asiatici come un’opportunità per i giovani laureati delle università orientali.
Come spiegato da Amit Tiwari, presidente dell’associazione studenti indiani sul Times of India, il nuovo sistema spalanca le porte ai talenti, come quelli indiani, «disposti a lavorare in cambio di compensi molto più bassi rispetto a quelli britannici». Una delle novità più significative introdotte dal nuovo piano per l’immigrazione, destinato a diventare legge nei prossimi mesi, è infatti l’abbassamento da 30mila a 25.600 sterline dello stipendio minimo indispensabile (oltre alla conoscenza dell’inglese e a un profilo in linea con il fabbisogno nazionale) a ottenere il visto d’ingresso. L’aggiustamento al ribasso del compenso previsto per i lavoratori qualificati contraddice, tuttavia, la ratio che ha portato il governo di Boris Johnson a serrare invece le porte del Regno Unito ai lavoratori non qualificati. Detta dal ministro degli Interni Priti Patel, la misura è stata pensata per porre un freno allo sfruttamento della manodopera a basso costo, in particolare a quella proveniente dall’Est Europa, e per incoraggiare le aziende ad assumere i britannici inattivi (circa 8 milioni e mezzo) previa adeguata formazione.Secondo alcuni esperti, l’idea di ricorrere alla manovalanza “domestica” e, come auspicato dal ministro Patel, ai sistemi di automazione industriale per sopperire alla carenza di forza lavoro, è per il momento «irrealistica» e, in ogni caso, non esauriente soprattutto per il comparto agricolo, alberghiero e industriale.
Nemmeno i progetti di mobilità per i giovani e quelli per il ricongiungimento delle famiglie sembra poter attutire in qualche modo la scarsità di manodopera. Il rischio è che, pur di garantire servizi e produzione, gli imprenditori locali ricorrano al lavoro nero e al reclutamento di immigrati illegali importati attraverso i traffici della malavita internazionale.
Le linee guida del governo sono destinate a diventare legge nei prossimi mesi ma qualche ritocco sembra ancora possibile. Quello più auspicato riguarda il comparto dell’assistenza sociosanitaria retto da un esercito di 840mila addetti (di cui appena un sesto britannici) pagati in media 7.89 sterline all’ora (intorno alle 20mila sterline all’anno), meno di quanto in genere guadagni nel Regno Unito una cassiera del supermercato. Declassato dal governo come settore per operatori non qualificati, e neppure segnalato tra quelli a scarsa reperibilità di manodopera, il comparto rischia di andare incontro a un’emorragia di badanti, accompagnatori per anziani, educatori per disabili. A farne le spese non sarebbe solo il circuito di associazioni che reggono il business ma il già fragile sistema sanitario nazionale che attinge alla rete per fornire, in particolare, l’assistenza domiciliare.
Il premier Johnson non ha per il momento annunciato misure straordinarie per il riordino del settore socio-assistenziale ma, come è noto, ha grandi progetti per quello sanitario. Se c’è un “piano B” per salvarlo lo si saprà nelle prossime settimane.