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 2020  febbraio 23 Domenica calendario

Vivere in Italia ai tempo del coronavirus

Un treno bloccato per un’ora e mezza nella stazione di Lecce, perché a bordo c’è un passeggero di ritorno dalla Cina. E non importa se perfettamente sano: per tutti sono scattati i controlli di sicurezza. La Coldiretti preoccupata perché la gente non frequenta più bar e ristoranti, parla già di «recessione». L’Asl di Lecco, nel cuore della notte, costretta a smentire un articolo di una testata online su un presunto ricovero in isolamento del direttore dell’Unità di infettivologia dell’ospedale cittadino. La psicosi coronavirus sta mettendo a dura prova l’equilibrio e la tenuta nervosa di tante persone, cambiando i nostri stili di vita e abitudini consolidate. E basta una semplice influenza per generare il panico in tante famiglie. «Per ridurre la paura bisogna ridurre l’ignoranza», ricorda il past president della Società italiana di psichiatria, Claudio Mencacci. Che invita a «collegarsi ai siti ufficiali e non ricercare in rete, dove non sempre ci sono notizie affidabili». Soprattutto, Mencacci ricorda che la necessità di ridurre i contatti, soprattutto nelle zone dove il virus si è già manifestato, non deve farci dimenticare di vivere in una comunità. «Non smettiamo di parlarci – è l’invito dello psichiatra –. La tecnologia può venirci in aiuto».
«Organizzare una possibilità di contatto telefonico con l’esterno, per continuate a poter sentire amici, persone che fanno parte della nostra socialità – ricorda l’esperto –. La tecnologia può venirci in aiuto per tornare a dialogare. Ci si lamenta che sia finito il tempo del dialogo, adesso che si è “costretti” a stare insieme si può cogliere l’opportunità per scambiare qualcosa in più che notizie di carattere operativo. Si creano così situazioni di avvicinamento e anche talvolta, inevitabilmente, di conflitto».
Mencacci ricorda che «siamo entrati nella fase della responsabilità. Dobbiamo mettere in atto comportamenti e azioni che ci rendono responsabili sia verso noi stessi che verso gli altri – conclude –. Per ridurre la paura bisogna ridurre l’ignoranza e per ridurla bisogna che vengano messi sul campo una serie di comportamenti che siano comprovati scientificamente e che riducano la diffusione del contagio. La situazione non va presa sottogamba o banalizzata: occorre però evitare comportamenti irrazionali. Tutto va affrontato con scienza e ragione».
Un invito a «ricordarsi di vivere» arriva dall’antropologo Franco La Cecla, che sollecita tutti a «dare valore al fatto di essere vivi». Rientrato dalla Cina cinque settimane fa, La Cecla si dice «non preoccupato» e invita a non farsi prendere dal panico. «Spero che, alla fine, tutto questo porti alla riscrittura di un nuovo Decamerone», chiosa La Cecla. Proprio come nel ’300, quando la voglia di vivere della gente si rivelò più forte persino della peste nera che stava decimando la popolazione europea, così anche oggi, di fronte a queste circostanze eccezionali, si deve «continuare a vivere». Perché è questa la «risposta migliore» alla psicosi dilagante.
Un comportamento che sta intasando i pronto soccorso degli ospedali, dove non si sono carenze di alcun tipo, come mascherine e abbigliamento protettivo. Il vero pericolo è proprio questa psicosi, anche per Francesco Ripa di Meana, presidente della Fiaso, l’organizzazione che riunisce le aziende sanitarie italiane. Il messaggio è netto: «In caso di sospetto contagio con il coronavirus non andate al pronto soccorso», spiega Ripa di Meana. La motivazione di questo appello è proprio evitare che i contagi si possano moltiplicare in un luogo già spesso congestionato di presenze, soprattutto in un momento dell’anno come questo, quando i casi di influenza stagionale sono ancora molto numerosi, provocando complicanze che causano un aggravio di lavoro nelle strutture dell’emergenza. Certo, tenere a bada la paura non è facile, soprattutto quando viene toccata la «vita nuda», ricorda il sociologo Aldo Bonomi. «Il coronavirus ci fa scoprire la fragilità del corpo, ci mette di fronte alla malattia – sottolinea lo studioso delle dinamiche sociali –. Soprattutto, il coronavirus non è un attacco virtuale, ma tocca il nostro corpo e ha a che fare con la fragilità, con la nostra finitezza. Una dimensione che la nostra società tende a cancellare, a nascondere».
Lo scoprirsi appartenenti a una società «dai mezzi iperabbondanti ma dai fini totalmente incerti», non deve, però, portarci alla chiusura, al «rinserramento», dice il sociologo, ma può essere l’occasione per «riscoprire nuove forme di convivenza». Dove lo stare insieme è più forte della paura.