Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2020
A ritroso nella chimica di dieci vocaboli
Affermava ironicamente Manzoni che «i nomi sono puri accidenti» e con questa affermazione intendeva sparigliare un po’ le carte mentre si accingeva a battezzare i suoi personaggi per inserirli nel flusso della storia secentesca. Se «i nomi sono puri accidenti», nel trasferire uomini e geografie da un foglio all’altro (nel tradurre il racconto dell’anonimo in una lingua meno impenetrabile) non faceva granché differenza che il suo protagonista si chiamasse prima Fermo, poi Renzo. Le questioni non stanno effettivamente così visto che, per passare da Fermo a Renzo, egli ha riflettuto a lungo. I nomi non piovono mai dal caso, sono espressione di un destino, hanno una profondità, un sottosuolo, una vicenda centenaria che genericamente si definisce etimo, ma che è qualcosa ben oltre rispetto all’indagine genetica.
Ce lo ricorda Marco Balzano in questo libro che sembra scritto per finire nelle mani di studenti allergici alla ragnatela del linguaggio, proiettati a interessarsi esclusivamente del sistema dei significati anziché del patrimonio delle origini, come purtroppo continua a chiedere la scuola, e ignari che esista un’archeologia per ciascun termine, anche quelli logorati dalla rete.
Il punto di partenza sta qui: è talmente eccessiva l’attenzione agli aspetti esteriori della lingua da ignorare che esista una vicenda sotterranea, una biologia che si dirama nelle stratificazioni del tempo, nel vagabondaggio geografico, negli infiniti innesti e accoppiamenti. Per non “subire la lingua”, per non rimanere vittime passive di un linguaggio che va esaurendo la propria identità specie quando se ne fa abuso in quel tritacarne di senso che sono i social, bisognerebbe attivare un cammino a ritroso, un procedere nella chimica della memoria di ciascun vocabolo, strato dopo strato, fino a raggiungere la radice primordiale, da cui poi si sarebbero diramati, come il corso di fiumi contromano, i numerosi significati. Questo è il più ambizioso dei traguardi che il libro si pone.
Non subire la lingua è un po’ come difendersi dal pericolo dell’omologazione: un rischio che sta sempre all’orizzonte, pronto a colpire lo studente sprovveduto come lo scrittore alle prime armi, e che vediamo crescere nella disarmante frequentazione delle librerie, quando si appalesa il confronto con una lingua sempre più di grado zero, fintamente adatta a far sentire il lettore a proprio agio e invece sciatta, senza inflessioni, senza marcature espressive.
Se è vero che «internet ha cambiato la fenomenologia della memoria», così come scrive Balzano, tocca a chi frequenta la lingua per ragioni creative (e non cinicamente economiche), cioè agli scrittori, farsi carico di un progetto che restituisca uno strumento di forte identità a una nazione che attinge ad altri dizionari per inspiegabili complessi di inferiorità, convinta di trovare in essi quel salto che il provinciale avverte quando arriva in città e vede tutto più grande.
Sentirsi figli di una tradizione che ha raccontato il mondo come mai nessuna civiltà, dal Medioevo in avanti, sarebbe già un traguardo invidiabile per i lettori di questo libro a cui non sfuggirà l’ordine apparentemente casuale con cui l’autore seleziona i vocaboli nel passato dei quali camminare a ritroso: divertente, confine, felicità, social, memoria, scuola, contento, fiducia, parola, resistenza.
Balzano gioca come Manzoni dicendoci che non esiste un criterio selettivo se non dentro un elenco di occorrenze e frequentazioni comuni. Così non è. I dieci vocaboli scelti non hanno certo l’ambizione di esaurire il dicibile, però segnano il perimetro quotidiano in cui si svolge la vita di tutti noi, fruitori più o meno consapevoli di un idioma che è segno di una civiltà troppo presto dimenticata, a cui non resta altro se non una scelta: o tacere (per uscire dalla confusione mediatica) o recuperare la profondità perduta.