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 2020  febbraio 23 Domenica calendario

Il Duce «frigoriferò» il dissenso

Siamo abituati a pensare ai dizionari come a strumenti neutri, asettici. Che si limitano a dare il significato esatto di una parola. Nulla di più, nulla di meno. Ma le cose non sono così semplici. 
Nel 1977 uscì un libretto di Domenico Scafoglio e Geppina Cianflone intitolato Le parole e il potere. L’ideologia nel vocabolario italiano. Passava al setaccio i più diffusi dizionari scolastici con l’intento di mostrare come esercitassero quello che veniva definito «un controllo ideologico (…) attraverso l’assegnazione al segno linguistico di un significato di parte». E questo perché, si continuava, «il dizionario non si limita a definire e a descrivere, ma inevitabilmente censura, condanna, suggerisce, talvolta persuade, sconsiglia, terrorizza». Bastano queste citazioni per comprendere come si tratti di un libro fortemente legato al clima del tempo (per dire: tra le voci di cui si lamenta l’assenza nei dizionari comuni ci sono guevarismo, subcolonia, autoriduzione). Ma che è interessante, almeno storicamente, per l’attenzione a quelle che venivano chiamate le «tecniche di manipolazione dei significati»: ossia i modi attraverso i quali i dizionari possono orientare in senso ideologico ciò che all’apparenza può sembrare un’astratta descrizione dell’esistente. Dalla semplice omissione di un’accezione specifica – tipico il caso di quelle legate alla sfera sessuale – sino alla creazione di esempi mirati per connotare negativamente una certa parola (così lo Zingarelli nel 1959 accompagnava la voce socialismo: «il socialismo fa scarso conto dei valori individuali»).
La dimensione ideologica dei vocabolari è tra i temi di un libro del linguista Massimo Fanfani, Dizionari del Novecento (Società Editrice Fiorentina). Fanfani concentra l’attenzione sugli «aspetti sociolinguistici delle manipolazioni vocabolaristiche, intendendo le strategie legittimanti o delegittimanti come una conseguenza della mentalità dominante». E spiega come non tutto, ovviamente, si presti a essere manipolato: ci sono parole polarizzate in senso positivo o negativo a prescindere. Giustizia, pace, libertà, prosperità sono per forza di cose positive; terrorismo, negativa. Altri termini mutano quando cambiano le condizioni storico-politiche: parole come autarchia, corporativismo, totalitario avevano un valore positivo tra le due guerre; dopo la caduta del fascismo, la loro connotazione è cambiata di segno. Ci sono voci però che, scrive Fanfani, «posseggono una connotazione potenzialmente bipolare, anfibologica». Parole come autorità, borghese, compromesso, globalismo, liberismo, rivoluzione possono essere viste in modi diversi a seconda della parte politica. 
Esempi di ideologizzazione dei dizionari si trovano già nel pieno Ottocento. E le tecniche sono già raffinate: il lessicografo anticlericale Rigutini, tanto per fare un esempio, nel suo vocabolario del 1875 dispose attorno al lemma frate una selva di alterati peggiorativi come fratacchione, fratacchiotto, frataccio, fraticino, fratoccio. La stessa tecnica si trova anche in un dizionario blasonato come il Giorgini-Broglio (1870-97), di emanazione manzoniana: qui è la voce repubblica a essere circondata da alterati come repubblicanaccio, repubblichetta, repubblichina.
Il laboratorio principe di questo tipo di analisi è però naturalmente il ventennio fascista. I dizionari erano d’altronde strumenti particolarmente adatti per la propaganda: non solo permettevano di rafforzare l’ideale di lingua del regime ma – al pari delle grammatiche – erano percepiti come autorevoli.
Lo stesso Mussolini, sappiamo, non mancava di interessarsi direttamente alla questione. Introducendo la settima edizione del suo Dizionario moderno (1935), Alfredo Panzini rivelava di aver ricevuto «ogni tanto avvisi, dove, per indiretta via, il Capo del Governo si interessava perché questa o quella nuova parola fosse accolta». I neologismi che Mussolini avrebbe fatto arrivare sono una ventina: ci sono parole eccentriche come frigoriferare nel senso di «tacitare, non tenere in conto, mettere in disparte»; ma anche voci comuni come targare nel senso di «apporre la targa a un’automobile». Alcuni usi mussoliniani sono ancora oggi registrati nei dizionari. Una banale ricerca nella versione online del Grande dizionario della lingua italiana (www.gdli.it) permette di ricavarne diversi: colloidale derivato da colla per definire qualcosa di difficilmente afferrabile, sfuggente, oppure pennìvoro stilopennìvoro per indicare «chi mangia con i guadagni della penna». 
Ma l’ideologia del regime permeava i vocabolari a tutti i livelli. Nel Dizionario di Panzini appena ricordato, ad esempio, alla voce celibe si legge: «individuo che il fascismo considera poco amorevolmente e perciò sottomette (1926) a tassa speciale». Questi riferimenti espliciti erano solo la parte più visibile di una fascistizzazione del pensiero lessicografico che viveva però anche a livello implicito. In un dizionario scolastico del 1936, quello curato da Enrico Mestica, si definisce ad esempio il campanilismo come «sentimento gretto e meschino per il luogo nativo, che impedisce ogni altro nobile sentimento». Anche il più importante vocabolario del tempo, quello dell’Accademia d’Italia, nato per diretta volontà di Mussolini dopo la soppressione del Vocabolario della Crusca e che si avvalse della collaborazione di importanti linguisti e filologi, non si sottrae a un’impostazione ideologicamente orientata. Nonostante nelle definizioni si adotti un tono generalmente neutro, il debito nei confronti del regime viene pagato altrove. Per la voce agitatore, ad esempio, si ricorre a questa citazione di Mussolini: «L’epoca degli agitati, degli agitatori, delle agitazioni a rotazione continua è finita». E lo stesso avviene per molte altre voci, anche di significato non immediatamente politico, come accentoaratroavvenire. Ma era il 1941: l’Italia era già in guerra; in breve tutto venne travolto. Il primo volume, che comprendeva il segmento alfabetico sino alla C, sarà l’unico a uscire.