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 2020  febbraio 23 Domenica calendario

Gli straordinari anni Venti in America

Prima c’era stata la Belle Époque con tanto di arciduchi e ballerine, pennacchi e carrozze, culottes e champagne. Durò una trentina d’anni e nell’immaginario internazionale – protagonisti e spettatori, di qua e di là dell’Atlantico – fu un periodo di prosperità e di festa. Forse non proprio per tutti; e, come raccontava un mio bisnonno con garbata impassibilità, fu quella un’epoca in cui i genitori promettevano ai figli: «Se fate i bravi, domenica vi porto in centro a vedere i signori che mangiano il gelato». 
Ci fu però chi, insoddisfatto di come stavano le cose e forte di certe letture, provò a cambiare il sistema, come gli anarchici che pugnalarono o spararono ai rispettivi capi di Stato, a Lione nel 1894 e a Monza nel 1901; o il nazionalista serbo che a Sarajevo, nel giugno del 1914, uccise a pistolettate gli eredi al trono di Austria-Ungheria.
Dopo quest’ultimo fattaccio, che seppur con qualche ritardo sul calendario mise fine al secolo XIX, scoppiò una guerra che fu un’immonda carneficina; e che, sulle ali della retorica e scambiando la singolar tenzone degli eroi omerici e persino ariosteschi con gli appostamenti dei fantaccini nel fango delle trincee, fu detta “grande” in ragione del numero dei morti e dei Paesi interessati. 
Il presidente Wilson coinvolse l’America perché quel conflitto, disse agli elettori, doveva essere l’ultimo della storia; e a Est dei Balcani maturò – cioè, giunse a compimento, nel 1917 – l’attesa messianica di un’era in cui sarebbe sorto dalle tenebre il sol dell’avvenire.
Ma lo scempio durò ben oltre la firma dei trattati di pace. Le decine di milioni di morti a causa dell’influenza spagnola (1918-’20) furono la dimostrazione che, quando ci si mette, la Natura – ma forse qualcuno poté pensare che la responsabilità fosse degli dèi dell’Olimpo o, magari, addirittura dell’Onnipotente antropomorfo della tradizione ebraica -, la Natura, ovvero la biologia impazzita, è in grado di fare sfracelli più e peggio dei popoli tecnologicamente e ideologicamente avanzati. 
Si arrivò così ai “ruggenti” anni Venti. Un periodo animato da una gran voglia di andare contro le convinzioni d’antan, che proclamò l’avvento della “modernità”; e, nelle arti, del Modernismo. Due parole, derivate dal latino modus, che di per sé non indicavano nulla di specifico, ma che segnarono uno spartiacque tra un prima tutto da rifiutare e un dopo da sperimentare e, se possibile, godere fino alla feccia.
Fu un’epoca di calcolato disorientamento in cui l’arte prese il posto della religione, e il mondo occidentale, ormai industrializzato – e, bisogna dirlo: generalmente più ricco di prima – parve soprattutto intento a elaborare riti e miti (e forme) del tutto nuovi. 
In Francia si parlò di “Anni folli” e in Germania di “Anni d’oro”, anche se il Paese caduto in bolletta a causa dei debiti di guerra dovette aspettare qualche tempo prima di darsi alla pazza gioia con i soldi che arrivarono da Wall Street. 
Furono però gli Stati Uniti a rubare la scena. La parola “modernità” divenne sinonimo di novità e suggerì al mondo intero un modo di pensare e atteggiarsi, corredato – per non dire accessoriato – di nuove o sperimentate invenzioni che la produzione di massa mise a disposizione di tutti. Telefoni, automobili, aerei, ascensori elettrici, grammofoni, frigoriferi, lavastoviglie, qualche progenitore delle nostre cucine componibili, insieme alle riviste in rotocalco e agli apparecchi radio che portarono il mondo nelle case della gente, tanto nelle città quanto nelle sperdute praterie.
L’abbigliamento, soprattutto femminile, subì una drastica riforma. Aboliti i panneggi e ridotte le decorazioni, si accorciarono le sottane per entrare e uscire con agio dalle automobili e salire sui treni; ma, soprattutto, per ballare il charleston e il fox-trot. Sparirono i cappelli a larghe tese delle dame d’un tempo, ma non del tutto le loro velette; mentre l’acconciatura dei capelli subì una inopinata se non proprio irreversibile rivoluzione. Caddero le trecce e gli chignon delle signore; mentre i maschi, ormai del tutto glabri ma impomatati a specchio, continuarono a comportarsi da gentiluomini e a cedere loro il posto nelle sale d’attesa e sui mezzi pubblici, senza comunque correre il rischio – come avverrebbe oggi – di essere accusati di maschilismo.
Modelli di stile e di vita, i divi di Hollywood riempirono di primi piani e di cattivi pensieri il buio delle sale cinematografiche, con sguardi assassini e la lascivia dei loro baci. E tra inseguimenti e sparatorie – anche se le raffiche di mitra, ai tempi del muto, era un affannato pianista sotto lo schermo a segnalarle – a preoccupare le virtuose madri di famiglia, che invocarono tempestivi e appropriati interventi censòri a protezione dei loro figli, fu il dilagare della violenza negli spettacoli.
Nel corso della precedente Progressive Era (1896-1916), la lotta alla corruzione politica e l’impegno per le riforme sociali, sorretti da una fede universale nei miracoli prossimi venturi della scienza e della istruzione scolastica, avevano altresì visto il rafforzarsi dei movimenti e delle leghe contro la piaga dell’alcolismo. Protagoniste spesso le donne, che avevano finito per mal sopportare il comportamento dei mariti ubriachi. E nell’ottobre 1919 fu approvata una legge federale, nota come Volstead Act, che entrò in vigore all’inizio del 1920 e che durò fintanto che la perdita di introiti fiscali da parte dello Stato federale non rese necessario, nel 1933 e in piena Depressione, raschiare il fondo del barile facendo riprendere la produzione e il consumo degli alcolici per lucrarvi le tasse.
La virtù (leggi: sobrietà imposta per statuto) rese eccitante, per non dire sexy, la sua trasgressione, specialmente in allegra compagnia; e Winston Churchill, sebbene la cosa non lo riguardasse, fece sapere che il Proibizionismo era da ritenersi «un insulto alla storia del genere umano». Fatto sta che comunque diminuirono i morti e i ricoverati negli ospedali e nei manicomi, anche se aumentarono i ritrovi illegali dove si beveva e folleggiava di nascosto. Il rischio di essere scoperti dalla polizia e arrestati nel corso di una irruzione diventò un prezioso eccipiente, compreso nei prezzi proibitivi che si pagavano sull’unghia e sottobanco al barista per una bottiglia di whisky o di champagne importato illegalmente dal Canada. Prosperò la malavita – i gangster, le sparatorie, le rapine e il gioco d’azzardo – come sappiamo benissimo tutti quanti per averlo visto nei film e nei fumetti, o letto nei romanzi hard-boiled
Come ebbe a scrivere Malcolm Cowley, compagno di viaggio di tanti scrittori di una generazione che aveva amato perdersi nei bistrot e nelle soffitte di Parigi alla ricerca di un bandolo da cui partire per ridefinire la propria visione del mondo, coloro che ebbero la fortuna di nascere un po’ prima della fine dell’800 vissero gran parte della propria esistenza con la sensazione che il nuovo secolo fosse stato loro affidato. Che tutto fosse possibile. E si buttarono nell’impresa con uno slancio che, in pieno Modernismo, era ancora del tutto romantico. Il loro portavoce divenne idealmente un mirabolante narratore, Francis Scott Fitzgerald, capace di “inventare il presente”. Di viverlo, e di farlo vivere a chi legge, come fosse una favola. 
Che il tutto sia poi finito in tragedia – lo scrittore, i suoi protagonisti e l’intera epoca che crollò insieme a Wall Street nel ’29 – fa parte di un’altra storia. E perdura nel nostro ricordo come un simbolico addio alla giovinezza.