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 2020  febbraio 23 Domenica calendario

Il secolo di Marida Recchi. Intervista

Per capire cosa sia stata Torino e cosa sia stata – e non sia più – la borghesia italiana, bisogna venire alla Crocetta nella casa al pianterreno di Marida Recchi: donna di impresa e di filantropia, testimone di un secolo di storia del nostro Paese.
Signora, lei è nata 102 anni e tre mesi fa. 
«Nei giorni della rotta di Caporetto». 
Aveva cinque anni quando il Duce prese il potere. 
«Ricordo la sua voce alla radio. All’inizio parlava con un terrificante accento romagnolo; poi affinò la dizione. Era un bravo oratore. Ma non aveva viaggiato abbastanza e non conosceva gli Stati Uniti. Altrimenti non avrebbe fatto la guerra». 
Ricorda anche Hitler? 
«Andai a Berlino per le Olimpiadi del 1936, ma non vidi né lui né Jesse Owens. Incontrai però Ondina Valla, prima della finale degli 80 metri a ostacoli. Le dissi: “Abbiamo sentito tanti inni, ma non ancora l’inno italiano...”. Vinse clamorosamente e grazie a lei ascoltammo la Marcia Reale all’Olympiastadion, uno stadio meraviglioso. Era la prima volta che una donna italiana conquistava una medaglia d’oro olimpica». 
Com’era il clima? 
«L’organizzazione tedesca era perfetta. Avevo studiato il tedesco, amavo la loro cultura, anche se ovviamente non i nazisti di cui ancora si capiva poco. Eravamo prima dell’Anschlüss. Pensavamo che non avrebbero scatenato la guerra». 
Ha altri ricordi della Germania? 
«Studiavo in Westfalia, avevo 15 anni, con le amiche andavamo in bicicletta a trovare il farmacista, che ci regalava le caramelle. Durante l’occupazione nazista mio marito, che aveva ereditato da suo fratello l’azienda di costruzioni, aveva bisogno di permessi anche solo per uscire di casa. Siccome parlo tedesco, andai io ad affrontare il responsabile della piazza di Torino, colonnello Brinken. Entrai nel suo ufficio e sentii la sua voce chiamarmi con il mio cognome da ragazza: “Fräulein Acuto...”. Era il farmacista. Ottenni i permessi». 
È vero che lei ha conosciuto Guglielmo Marconi? 
«Sì. Mio padre era chimico e frequentava la società scientifica dell’epoca. Di alcuni scienziati era diventato grande amico: non solo del promettente Giulio Natta, che avrebbe poi vinto il Nobel nel 1963, ma anche di Marconi. Ci vedevamo d’estate in Val Gardena, era con sua figlia Elettra e con la seconda moglie Cristina, per poterla sposare si era rivolto al Papa. Era un conversatore brillantissimo». 
Ricorda il Grande Torino? 
«Certo. Ero e sono molto tifosa del Toro. Quand’ero ragazza la Juve non toccava palla: un periodo meraviglioso. Quando il Toro è morto fu un dolore terribile per tutti. Ero amica di Renato Casalbore, il fondatore di Tuttosport, anche lui caduto con la squadra a Superga. Andavo al Filadelfia a vedere la partita. La prima volta portavo un cappello con delle ciliegie: nella ressa qualcuno me lo fece volare via. Ora che ci ripenso, non aveva torto». 
Perché? 
«Perché andare al Filadelfia portando un cappello con delle ciliegie era francamente una sciocchezza». 
Com’erano i cantieri in Africa? 
«Affascinanti e grandiosi. Città temporanee da migliaia di abitanti. Ferraioli veneti, carpentieri piemontesi, e molti operai del posto, che chiamavano i figli con nomi immaginifici, tipo Caterpillar e Signorgeometra. Lavoro duro, fatto con il gusto di costruire, di lasciare qualcosa dietro di sé, di fare della Libia, del Sudan, dell’Etiopia un posto migliore». 
In Etiopia lei incontrò l’imperatore Hailé Selassié. 
«Era molto piccolo, e girava con cani piccolissimi. Una figura ieratica, dagli occhi mobili. Parlavamo in francese. Toccava a lui prendere la parola, ma la moglie francese di Rinaldo Ossola, direttore generale della Banca d’Italia, non lo lasciava parlare. Si arrabbiò. Il giorno dopo la fece contattare dal primo segretario». 
Per chiederle scusa? 
«No, per ribadire che aveva ragione lui, e chiedere soldi per l’Etiopia a Bankitalia. Quando Menghistu lo depose con un colpo di Stato militare, aiutammo alcuni nipoti a fuggire negli Stati Uniti. Purtroppo la più grande, la principessa Igigaeiù, mia cara amica, finì in carcere. E nelle carceri di Menghistu non c’era cibo: i detenuti mangiavano quel che portavano i familiari; ma i suoi familiari non c’erano più. Così la principessa morì di fame». 
La vostra azienda di famiglia ha fatto i viadotti dell’Autostrada del Sole. 
«Sì. L’Autostrada del Sole è stata un’operazione titanica, che tutto il mondo ha ammirato. Le migliori imprese sono state coinvolte in centinaia di lotti, chiamarono i migliori progettisti e ingegneri italiani, orgogliosi di contribuire a questo progetto collettivo che univa il Paese. Era un’Italia in crescita, che aveva fiducia in se stessa. Uscivamo da una tragedia. All’inizio il lavoro mancava, eravamo un Paese povero, ma c’era questa grande spinta a ricostruire, a ripartire. Il nostro primo incarico dopo la Liberazione fu in Grecia». 
Come mai? 
«Riparazione dei danni di guerra: dovevamo costruire, con altre imprese, tre dighe. Con mio marito Giuseppe vivevamo in una baracca, che ingentilivo con qualche fiore». 
Come ricorda l’Avvocato Agnelli? 
«Telefonava alle 6 e mezza del mattino e chiedeva di mio marito, che chiamava con il suo soprannome, Pèpolo. Lo ammirava e un po’ lo invidiava: aveva avuto l’età giusta per fare la guerra di Spagna, mentre Gianni era troppo giovane». 
Ero e sono molto tifosa del Torino Quand’ero ragazza la Juve 
non toccava palla: un periodo meraviglioso. La tragedia del Toro fu un dolore terribile per tutti 
Suo marito combatté in Spagna con Franco? 
«Nell’aviazione. L’Italia aveva dato il suo supporto e mio marito si trovò a far parte della Squadra dei caccia, la Cucaracha. Volavano su Fiat CR42: scatolette di legno, bussola con l’acqua per indicare il Nord, l’anemometro per segnalare la velocità». 
Dove vi siete conosciuti? 
«A Bolzano. Ero infermiera volontaria della Croce Rossa. In ospedale curai suo fratello, ferito a un braccio, che gli parlò di me. Venne per conoscermi, ma rimase chiuso in macchina, senza alzarsi. “Ferito di guerra?” lo apostrofai». 
Lei fondò l’associazione che portò in Italia il vaccino antipolio. Ha conosciuto Albert Sabin? 
«Certo. Era un ebreo polacco, parlavamo in tedesco. Era un grande filantropo: non brevettò mai il suo vaccino, perché tutti i bambini del mondo potessero ricevere questo suo dono. Ed era pure un igienista: mi suggeriva di non stringere mai la mano a nessuno, semmai di baciarlo ma senza toccargli le guance, baciando l’aria, così. Stava lavorando a un vaccino contro il morbillo per i Paesi africani, ma diceva che con i vaccini bisogna essere prudenti, bisogna prima studiare». 
Vedo una foto con Romiti. 
«Sua moglie era una delle mie migliori amiche. Ma la prima volta che Cesare venne a casa nostra feci una gaffe. Preparai in suo onore la fonduta con il tartufo; lui detestava sia i formaggi, sia il tartufo. Così gli preparai due uova strapazzate». 
Lei ha anche una foto con Marchionne. 
«Una persona speciale, anche molto affettuosa. Per Torino è stata una grave perdita». 
Fanfani frequentava la sua casa di Portofino. 
«Veniva a dipingere, e ci lasciava i suoi quadri. A casa nostra incontrò Maria Pia. Lei rimase stregata e ci annunciò: “Sposerò quest’uomo”. Lui all’inizio pareva indifferente. Quando regalò il primo quadro pure a lei, capimmo che si era innamorato. Tre mesi dopo erano marito e moglie». 
E Gheddafi com’era? 
«Un grande personaggio. Con Jallud presero in mano la Libia che avevano vent’anni. Jallud strinse un forte legame con mio figlio Enrico, che seguiva i lavori in Africa. In quegli anni la Libia ebbe una straordinaria importanza per il nostro Paese, ricordo il clamore che suscitò il suo ingresso nel capitale della Fiat. Il modo in cui hanno ucciso Gheddafi è stato una barbarie». 
E Craxi? 
«È stato un grande amico, sono anche andata ad Hammamet ai suoi funerali. Parlava benissimo. Voce da oratore. Quando mio figlio Enrico morì in un incidente aereo arrivò a casa nostra di notte, piangendo». 
Anche suo figlio era un aviatore? 
«Un operaio veneto ebbe un incidente in cantiere in Africa, perse un braccio. Enrico caricò l’operaio sul suo aereo, decollò di notte da una pista illuminata dai fari del camion, con il braccio a bordo, e al Cto di Torino con un intervento straordinario riuscirono a ricucirlo. La nostra impresa credo sia stata una po’ unica: una grande famiglia unita nel condividere le difficoltà dei cantieri e quelle della vita privata. In questo senso ho sempre cercato di aiutare mio marito nella sua attività di imprenditore». 
Com’è la vita a 102 anni compiuti? 
«Una barba. È terribile non avere un futuro. Non poter fare progetti. L’unica aspettativa che posso coltivare è arrivare viva a fine giornata. Badando a non cadere». 
Come immagina l’Italia tra vent’anni? 
«Spero che investa nella cultura e nella formazione dei suoi giovani. I riferimenti al passato non sono inutili, per capire le motivazioni che hanno costruito il nostro Paese. Io ho vissuto in un’epoca ricca di ideali. Ricordo un’Italia senza infrastrutture né energia, che si è costruita grazie a un popolo capace di orgoglio e sacrificio. Un popolo che ha compiuto cose straordinarie, che ha fatto di una nazione divisa la quinta economia del mondo». 
Ma qual è il segreto della longevità? Mangiare poco? Fare molto sport? 
«Faccia sport, se le piace. Eviti le abbuffate. Legga: io ho sempre dormito poco e leggevo un libro ogni notte, ora purtroppo non riesco più. E coltivi il suo cuore. Io a cinquant’anni mi ero convinta di essere cardiopatica, mi dispiaceva morire anzitempo e lasciare solo mio marito. Così sono andata da un grande luminare svizzero». 
E lui? 
«Mi tranquillizzò: non ero così grave. Però aggiunse: “Certo, non scambierei mai il suo cuore con il mio”». 
Anche il luminare svizzero è centenario? 
«Morì due mesi dopo. Il mio cuore invece è ancora qui».