La Stampa, 23 febbraio 2020
I fantasmi di via Veneto
Nemmeno il pomeriggio si va più in via Veneto. Questo nastro di strada si è sciolto e giace a terra. Non l’abbiamo dimenticato, anzi: questo è il problema, lo ricordiamo fin troppo e la memoria si sovrappone alla realtà, creando un’illusione. Via Veneto è un luogo simbolo della decadenza di Roma e d’Italia, ancor più è un simbolo della reazione che impedisce di prenderne atto. Chi mostra foto del presente non riceve uno sguardo, ma una risposta sprezzante: noi abbiamo fatto la dolce vita, il Rinascimento, la Storia. E quel che non han disfatto i Barberini, l’avete frantumato adesso.
Agli stranieri si offre un miraggio che non riescono ad adeguare alla fantasia che li prese all’amo. In due punti di Roma li vedi smarriti. Il primo è il Circo Massimo, giacché nessuno li ha avvertiti che è un vuoto nel centro della città, il suo cuore asportato. Il secondo è, appunto, via Veneto, vista al cinema, letta nei libri. Nel Gusto di vivere di Giancarlo Fusco, ad esempio: «Via Veneto, luccicante di automobili mostruose, al tramonto, è più vicina a Nuova York che alla Garbatella, a Londra che al Quarticciolo. Le notti primaverili, fra il Tritone e Porta Pinciana, si assomigliano tutte: cominciano al Café de Paris, da Doney, con le conversazioni degli intellettuali, e finiscono nella tristezza delle mondane sorprese dalla luce del sole. Roma, piccola e familiare di notte, diventa, appena fa giorno, un’enorme piovra di cemento». L’unica cosa sopravvissuta a questa descrizione è il tramonto, in ogni possibile senso.
Per il resto, «fra il Tritone e Porta Pinciana» è una teoria di serrande abbassate, di cavità che furono vetrine, di fantasmi delle grandi banche, annidati dietro ingressi sbarrati. Risalendo quel percorso si osserva un tratto della Roma chiusa benché feriale. Si inizia, sul lato destro, con l’accesso alla metropolitana, stazione Barberini, impedito da mesi da un cordone. Si prosegue con i negozi abbandonati, mentre di fronte languono tre cantieri prima delle scale che conducono a un night dal nome bambinesco dove puoi solo incontrare gli ologrammi di Totò e Peppino. Le edicole, mal comune a tutta Italia, ma a Roma endemico, sono tante all’apparenza: in sostanza vendono souvenir, immagini del Papa, calendari con i gatti, biglietti per la metropolitana che non va o per l’autobus turistico che non passa.
L’immobilismo, male minore
È tutta una finzione, anzi una fiction, una convenzione accettata, l’immobilismo come male minore, Roma che si proietta sul proprio sfondo: non è forse CineCittà? Sopravvivono gli alberghi, i grandi alberghi, con i portieri in livrea che sonnecchiano agli ingressi, di guardia all’immaginario: un paparazzo da scacciare, una limousine bianca da far svuotare sotto un cono di riservatezza. Invece accolgono anonimi oligarchi, petrolieri senza fama.
E i caffè, i caffè? Il De Paris è affondato in una storia giudiziaria di proprietà sospette, condanne e riabilitazioni che non ne hanno ridischiuso le porte. Il Caffè Veneto ha cambiato pelle, menù e infine si è arreso. Non ci sono più dehors, tavolini a cui schiamazzavano i tiratardi. Restano, in fondo, sull’orlo del precipizio, il Doney e l’Harry’s Bar, ci pasteggia e suona il piano Fiorello, come fosse la coda di un Festival già finito. Gli intellettuali e le mondane evocati da Fusco non conversano e non passeggiano più qui. È un curioso destino, il loro. Lo affrontano affiancati, come li unisse il filo sottile dell’irriverenza al pensiero comune. Appaiono insieme, vicini ma distanti, con l’eccezione di momenti fuggevoli. Decretano l’alterità di un luogo e così facendo lo mettono sulle mappe, lo rendono noto e appetibile. E insieme se ne vanno, anticipandone il declino con quel sottile istinto per la vita e la vivacità. Costruiscono un’epica per natura effimera. Gli affaristi si impossessano del mito da loro creato e poi li scacciano, convinti di poter continuare meglio senza, ma non è non sarà mai così.
Ci sono luoghi da favola e le favole bisogna saperle scrivere. Fa quasi tenerezza lo stupore dei commercianti per la desertificazione di questo che doveva essere un Eldorado. Contano i negozi di scarpe chiusi, (sette), gli anni da cui non vengono potate le magnolie (quindici) o sono stati portati via i dehors (due), il numero del municipio di Roma che pensano li aiuterà (uno).
Acquiescenza al declino
Sembra un’illusione nell’illusione. A Roma chiudono i parchi e si dovrebbe voler riaprire una strada? C’è stata, in tutto questo tempo, una docile acquiescenza al declino. In una laterale ha chiuso da tempo il cinema dove si proiettò la prima della Dolce vita. Anche nel centenario della nascita di Federico Fellini non si concedono repliche. Il largo a lui intitolato, intorno a Porta Pinciana, è l’ultimo omaggio, sta alla fine, oltre i titoli di coda.
La designer tedesca Judith Schalansky ha scritto un curioso Inventario di alcune cose perdute. Dedica un capitolo a Roma e le sue parole, benché relative ad altro, sembrano perfette per via Veneto e la città intera: «L’impronta di un lontano passato, un blocco di memoria coperto di piaghe. Il corpo immortale s’innalza dai detriti della fantasia degli stranieri che si fermano sognanti davanti alle macerie, impietriti da un sentimento di riverenza... venerano le rovine come fossero reliquie, sperano nella loro resurrezione, s’inebriano di uno splendore perduto e mai sazio. Un gigantesco, intricato organismo fatto di materia viva e morta, su cui regnano il caso, la miseria e la legge del sole».
Resta da chiedersi perché un pezzo di storia di Roma, e d’Italia, possa scivolare via nella quasi indifferenza. La verità è che se si racconta l’attuale stato di via Veneto a chi abita altrove gli si dà una notizia. Viene fuori che la conosce, ma attraverso parole e immagini altrui, non l’ha mai veramente frequentata, nella maggior parte dei casi neppure attraversata. È stata un rifugio per intellettuali e mondane, commercianti e stranieri. Non è stato, prima ancora che reale, democratico. In questo modo anche il suo sprofondare nell’oblio diventa una fantasmagoria, di cui pochi si accorgono. Non è stato un luogo condiviso, abbiamo condiviso soltanto il racconto che ne è stato fatto da chi l’ha vissuto, o semplicemente sognato.