la Repubblica, 23 febbraio 2020
Con regolare passaporto
Pare che il virus non sia arrivato sui barconi, nascosto in mezzo ai cenci dei clandestini, ma in aeroplano, magari in giacca e cravatta, con regolare passaporto. Pare che non ne faccia una questione di classe, di razza, di religione, e che salga a bordo dell’essere umano in quanto tale. Si trova bene ovunque, nel corpo del proletario e in quello del ricco, in quello del razzista e in quello del sincero democratico, tra le rughe del vecchio e nelle fresche mucose del bambino, nell’Iran islamista e nel Lodigiano cattolico: come la livella di Totò, per lui gli uomini e le donne sono tutti uguali.
Pare che il virus se ne infischi del tentativo (miserabile) di prendersela con i miserabili, perché sono soprattutto i benestanti che viaggiano molto e trovano varco ovunque: e dunque sono proprio loro i portatori di contagio più probabili, meritevoli di pietà e di fraternità come tutti gli infetti di questo mondo. Risulta che la Spagnola, cento anni fa, abbia girato per il Pianeta come se la globalizzazione già fosse in atto (difatti: è in atto da millenni), contagiando in ogni continente milioni di persone. Risulta che l’umanità patisca le pestilenze quasi all’unisono, viaggiano nelle pulci dei ratti, nelle piume degli uccelli, nelle suole delle scarpe dei marinai e nel cordame delle navi, nei vestiti, nelle merci. Questo dovrebbe far pensare che alla prudenza e all’igiene e alle quarantene bisognerebbe aggiungere una compassione indistinta per quanti siamo, miliardi di scimmie evolute e brulicanti e tutte ugualmente esposte alla fortuna e alla sventura. Niente come un’epidemia ci fa sentire uguali, niente come un’epidemia rende disgustose e criminali le speculazioni politiche.