la Repubblica, 23 febbraio 2020
I funerali di Kobe Bryant a Los Angeles
LOS ANGELES — Alle tre di mattina c’erano gli elefanti del circo Barnum, alle sei la bara di Michael Jackson, con Stevie Wonder che cantava. Quando deve ridere, piangere, divertirsi, emozionarsi, insomma scassarsi il cuore, Los Angeles viene qui. Allo Staples Center, downtown, zona riconvertita. This is the place. Questo è il posto per seppellire le epoche, il bene e il male, per dare il benvenuto al domani, al piacere e alle disgrazie, agli eroi benedetti e maledetti. Tutto sempre qui, eventi strepitosi: Springsteen, Rolling Stones, U2, Streisand, Prince, Madonna (era l’11 settembre), Adele, Taylor Swift. Le convention democratiche. E ora Kobe e Gianna. Mentre si scopre che il pilota dell’elicottero era stato multato nel 2015 per aver violato le regole del volo, infischiandosene del cattivo tempo. Allo Staples la città taglia, cuce, rimonta il suo film sull’America. Vita e morte. Il ciak del lungo addio è il giorno 24-2. Il numero di maglia di Bryant e della figlia tredicenne. C’è voluto quasi un mese per trovare la data giusta per questo figlio adottivo della città, con nome giapponese, soprannome africano “Black Mamba” dal film Kill Bill, nato a Philadelphia, cresciuto in Italia, diventato dio del basket, in venti stagioni tutte con la stessa casacca dei Lakers, la squadra dei ricchi e famosi di Hollywood. Ma non è che a L.A. puoi morire in elicottero quando ti pare: prima c’erano i Grammy, poi il Superbowl, poi gli Oscar, poi l’All-Star Game. Non era il caso di rovinare i party. Ora si può: lo Staples ha 20 mila posti, tutto avverrà all’interno, nessuno schermo fuori per vietare raduni di folla, chi non ha biglietto non potrà circolare, Moore, capo della polizia, lo sta ripetendo a tutte le tv. Niente cortei, nessuna processione. Troppi i fan e le richieste. Così è stata lanciata una lotteria on-line con estrazione a sorte, costi del biglietto sempre con il numero 224, il ricavato andrà alla Mamba e Mambacita Foundation. Domattina su un palco (24x24 naturalmente) tre ore di commemorazione pubblica per Kobe, Gianna e gli altri sette morti, poi di sera la partita dei Clippers, l’altra squadra di basket della città, contro i Memphis Grizzlies.
Lo Staples è così: double face, nello stesso giorno. Si emoziona, monta e smonta fitte emotive, ma sfratta presto anche gente e lacrime. Da 21 anni. Concerti e funerali. Parquet e ghiaccio. Canestri e hockey. Nba e Nhl. Musica e sport. Tutto in diretta, molto cool, regia perfetta. Lo Staples non mischia, passa ad altro. Chirurgia plastica, più che lifting. È un impianto riconvertibile, bastano un paio di ore e cambia faccia. Lo ha già fatto 220 volte. Non c’è più la scena del delitto. Spariscono forme, posti, sentimenti. Una tigre al posto di Paris Jackson che singhiozza: «Daddy è stato il papà migliore del mondo». Dal tennis alla boxe, dal pattinaggio alle moto, dal ciclismo al wrestling. Tutto è possibile: anche nel 2013 vedere l’attore comico Will Ferrell, con giacca rossa dell’addetto alla sicurezza, cacciare via Shaq, seduto davanti. «Abbiamo una tecnologia avanzata», spiega Lee Zeidman, il general manager che si vanta di saper gestire le tempeste perfette. E snocciola come fossero premi Oscar i funerali già organizzati, non solo Michael Jackson, ma anche nel 2009 quello del rapper Nipsey Hussle, 33 anni, ricordato perfino da Obama come uno che nel suo quartiere, a sud della città degli Angeli, era capace di vedere speranza («He saw hope»). Lui forse, gli altri no. Gli spararono dieci colpi. Poi nel 2002 quello per Chick Hearn, il telecronista di basket dello Staples, finito nella Hall of Fame di Springfield, uno come Brera capace di inventarsi nomi, poi entrarti nel linguaggio come "slam dunk” e “air-ball”, per lui Kobe era the Kid, Jabbar the Captain, Shaquille the Big Fella. E nel 2011 le esequie di John Cossette, produttore dei Grammy.
Ma per Kobe lo Staples era casa. Lui non era un ospite, un estraneo, ma era quello che l’aveva inaugurato. Si era trasferito qui con i Lakers dal primo giorno di vita. Lui ci scherzava: «Ho visto questa parte di Los Angeles smettere di essere solo un parking lot, questa città è cresciuta con me». Aveva ragione: da parcheggio per auto a impianto multimediale, 32 miliardi di dollari di impatto economico. Lo Staples era molto suo: una cuccia, ma anche un palcoscenico dove giocare, vincere, trionfare, esibirsi. Il suo confessionale: lì si presentò nel 2003 con maglia bianca, moglie e avvocati per dire che non era colpevole dell’accusa di stupro, ma che gli dispiaceva aver tradito la fiducia di Vanessa. Il suo divano da psicanalista: «Non riesco a capire perché per tutti non sia così importante vincere». E guarda tu: 81 punti nella partita contro Toronto nel 2006, un tiro a segno, seconda miglior prestazione della storia dietro Wilt Chamberlain che nel ’62 alla Hershey Arena ne segnò cento, dicendo «I’m hot». Incandescente lo era di sicuro. Ma Wilt “The Stilt”, il Trampoliere, era molto più alto di Kobe, 2 metri e sedici contro 1.98. E anche più magro, tanto che usava dei cerotti adesivi per tenere su i calzettoni.
Kobe ha abbandonato quella cuccia nel 2016. Ad aprile l’addio alle armi: 60 punti in trasferta contro Utah dell’ex ragazzino che venti anni prima aveva esordito con 6 minuti dimenticabili, nessun canestro. Nel 2017 i Lakers hanno ritirato i suoi due numeri, 8 e 24: se ne andava un uomo da 33.643 punti, ma soprattutto un marito e un padre con altri orizzonti. Quel giorno lì anche lo Staples fu hot, capace di non dividere il suo cuore con nessun altro.
Non ci sarà nessuna bara domani. Solo tutto il basket e l’America che conta, non solo nello sport. Allo Staples sono stati rimossi i ricordi lasciati dai fan: 1.353 palloni da basket, 14 stendardi, 5.000 tra lettere, cartelli e bandiere, più di 500 pupazzi e 350 paia di scarpe. Li ha richiesti Vanessa, la moglie. Kobe e Gianna sono stati sepolti con cerimonia privata nel cimitero accanto a casa, il Pacific View Memorial Park di Corona del Mar, a dieci minuti dalla chiesa di Nostra Signora degli Angeli dove Kobe alle sette di mattina di quella domenica era andato a messa e a pregare. Ricorda il prete: «Si è fermato a salutarmi, aveva ancora l’acqua santa sul viso». Il suo corpo è stato tra i primi quattro ad essere riconosciuto, grazie alle impronte digitali. Kobe cadavere sarebbe stato troppo anche per lo Staples, anzi per la Mamba House. E domani sul palco a parlare ci sarà Sabrina Ionescu, la nuova star del basket dei college (gioca per gli Oregon Ducks), una che Kobe e Gianna ammiravano e che anche Stephen Curry con le figlie va a vedere. Ionescu la mattina si commuoverà, poi volerà a casa, e la sera sarà in campo. Versatile anche lei, al cuore e ai doveri.