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 2020  febbraio 23 Domenica calendario

A Milano la trincea del padiglione 56

A un certo punto si apre la porta di sicurezza e si sente una voce, «Calma, calma…». Esce un medico, che abbassa la maschera di protezione e si accende la sigaretta, e sembra davvero stremato. Fuori ci sono tre ambulanze e un’automedica che aspettano, portano campioni da tutta la Lombardia, che vanno analizzati nel grande laboratorio a pianterreno, si intravvedono macchine e luci verdi, bisogna capire lo sforzo tremendo che si sta facendo in questo posto, ospedale Sacco di Milano, una cittadella sanitaria più che un ospedale, e una cittadella ieri praticamente deserta.
I viali, vuoti. Il bar, trenta scontrini in tutto, «pochi parenti in visita, la gente ha paura». Il Sacco si sta concentrando sul nuovo virus, non si ricovera più nessuno se non per quella patologia, quindi se arriva un’ambulanza a sirene accese significa che trasporta quel tipo di paziente, e nessun altro. Il pronto soccorso, che il sabato è sempre strapieno, contava ieri (le quattro del pomeriggio) sette persone in attesa, cioè niente. Urgenze, elisoccorso, tutto è dirottato sugli altri ospedali, e quindi c’è davvero una grande calma.
Ma in fondo al grande parco che contiene l’ospedale, che è centro di riferimento regionale per le malattie infettive, c’è il padiglione 62, dedicato a Microbiologia clinica, virologia e bioemergenze, e qui si lavora senza pause da giorni, a partire dal primario ed esperto di malattie infettive Massimo Galli, che ieri ha spiegato che questo virus «si è evoluto ed è cresciuto in natura, non certo in laboratorio, come ipotizzato da alcuni complottisti». Perché in quel caso «avrebbe avuto una partenza più piatta e un’evoluzione diversa», e perché «è molto simile, ma non completamente identico, ad altri coronavirus». A pochi passi dal suo studio, dall’altra parte del piazzale c’è il grande palazzo moderno che ospita il reparto Infettivi, il “56”, vietato a tutti, soprattutto ai parenti di chi il coronavirus ce l’ha. Non si entra «e non si esce», spiega una signora con figlia ricoverata al primo piano per un virus cerebrale: «Quelli del coronavirus sono al pianterreno, ma nessuno può andare a trovarli. Hanno i loro medici e i loro infermieri, ma noi non li vediamo neanche di sfuggita». Il palazzo è autonomo, ha cucine proprie, è studiato per le emergenze, infatti è nato all’epoca di Ebola, e il pianterreno è stato isolato dal resto, sigillato, chiuso, e il paziente Franco, ricoverato anche lui al primo piano ma autorizzato ad uscire per un po’ di aria fresca, spiega che dentro «è tutto molto calmo, forse più che fuori. Sanno cosa devono fare, il che tranquillizza anche noi, che pure non abbiamo contatti». Certo, spaventano le tute integrali, le maschere che proteggono la testa intera di chi lavora con i malati di coronavirus, tra cui c’è sicuramente una donna incinta, e gli altri, in tutto una ventina.
Si fa spazio per i contagiati che verranno, «la nostra amica, polmonite, è stata trasferita», raccontano due donne che se ne stanno andando. Un altro paziente al sole, Luigi, è stato «svegliato poco prima di mezzanotte, mi hanno detto “ti cambiamo camera”, mi hanno traslocato a un altro piano». Luigi non è contagioso, infatti può uscire sulla sua carrozzina, e ha paura? «No, loro stanno sotto, neanche li vediamo».
Passa l’ambulanza interna dell’ospedale, il conducente ha una maschera vistosa e gialla, arriva persino un’Ape, trasloca un macchinario che sembra un apparecchio radiografico. Passano due infermieri giovani, con la maschera a becco, portano sacchetti con non si sa che cosa da Microbiologia al “56”, quando escono abbassano la maschera, respirano questa giornata di primavera falsa, l’emergenza è appena iniziata e c’è troppo da lavorare per avere paura.