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 2020  febbraio 22 Sabato calendario

Nove racconti brevi di O. Henry

Appartiene alla categoria dei narratori che si leggono stando attentissimi. Non sappiamo quando arriverà l’affondo. Come la situazione si ribalterà. Dove starà nascosta la freccia avvelenata. Chi si rivelerà diverso da quel che sembra. Bisogna stare in guardia, O. Henry è capace di tutto. Un campione, specialista di short story: poche pagine con sorpresa. Storie brevi non rende l’idea, va riconosciuta agli anglosassoni la genialità e la bravura in un genere tutto loro, praticato senza svolazzi lirici.
Molti scrittori hanno il carcere nel loro curriculum ( e non sempre c’entra la politica). In galera a Siviglia, Cervantes ebbe l’idea del Don Chisciotte. Edward Bunker sentiva il vicino di cella a San Quentin battere sui tasti, e decise di imitarlo. O. Henry – nato William Sydney Porter in Ohio, nel 1862 – era contabile in una banca. Ne approfittò per finanziare illecitamente la sua rivista satirica The Rolling Stone. Scoperto l’ammanco, alla vigilia del processo scappò in Honduras. Rientrato negli Stati Uniti per accudire la moglie moribonda, lo condannarono a cinque anni. Ne scontò tre, il resto gli fu scontato per buona condotta.
In carcere aveva fatto fruttare gli studi in farmacia, lavorando – e pure dormendo – in infermeria. Fu allora che cominciò a usare lo pseudonimo O. Henry (la O sta per Olivier, alla francese). Un amico aveva l’incarico di spedire i racconti agli editori, non tutti trafficano volentieri con un carcerato. Rilasciato nel 1901, l’anno dopo si trasferì a New York: la città che fa da sfondo a buona metà dei suoi 600 racconti. Come diventare newyorkesi ne raccoglie nove, qualcuno inedito in Italia (negli Usa è amatissimo, e titolare di un premio per la short story vinto nel 2012 da Alice Munro).
Giorgio Manganelli ha una passione per O. Henry (anche per le storie ridotte all’osso: il suo Centuria raccoglie «Cento piccoli romanzi fiume» ). Finge di vergognarsene, nell’introduzione a Memorie di un cane giallo ( Adelphi 2013): «Per chi è abituato alla letteratura come virtù, è un modesto, circoscritto vizio». Poi corregge il tiro: un piacere infantile, come i dolciumi da fiera. Certifica che i racconti dell’americano non rendono il lettore più intelligente. Puro divertimento, congegnato da un artigiano che conosce i segreti del mestiere.«La penna si sposta dove si sposta il cuore del lettore» scrive O. Henry in “Un messaggero da Baghdad” (” Baghdad in metropolitana” era il suo modo di riferirsi alla città, ricca di storie da Mille e una notte, la sua lettura prediletta quando era bambino). È un modo per coccolare chi legge, con racconti di ricchi e di poveri, di stenografe e di broker a Wall Street. Di miliardari che si travestono da miserabili, e di ragazze lavoratrici che sognano la macchina con l’autista e il monogramma sulla portiera. Spesso con l’ironia messa a verbale da un film come Sabrina di Billy Wilder: «Nessun povero è stato mai considerato democratico per aver sposato un ricco» ( lo dice il padre di Sabrina, vedendola tornare da Parigi elegantissima, ancora innamorata del figlio nullafacente del padrone).
I ricchi si annoiano, esiste una bella letteratura in materia. La versione di O. Henry sta in un dialogo micidiale, tra due che siedono su una panchina al parco. Lei (che si rivelerà una cassiera dotata di molta fantasia) sbuffa e si lamenta: «Autisti, cene teatri, balli, ricevimenti, e il manto dorato della ricchezza sopra ogni cosa. A volte basta il suono del ghiaccio nella mia coppa di champagne per farmi impazzire». Lui (che miliardario è davvero): «Pensavo che dello champagne si raffreddasse la bottiglia».
Cominciavano a circolare le prime automobili, a velocità allora considerata folle. Sotto le ruote finisce Raggles, protagonista del primo racconto (stesso titolo della raccolta, Come diventare newyorkesi). Fa il poeta, specializzato in sonetti alle città. Si è già esercitato con successo su Chicago, Pittsburg, New Orleans e Boston. New York gli sfugge: «Era una fortezza eretta contro di lui. Non gli era stato rivolto nessuno sguardo, nessuna voce lo aveva apostrofato». Dentro ci son già tutti i lamenti sulla città e i suoi insensibili abitanti: «idoli che camminano, adoratori di loro stessi». Cambierà idea.
Altra tappa obbligata, il caldo feroce. L’afa che 70 anni dopo farà impazzire il disoccupato Jack Lemmon, chiuso nel suo appartamento con la moglie Anne Bancroft nel Prigioniero della seconda strada ( film di Melvin Frank dalla pièce di Neil Simon). Qui un bizzarro signore sostiene che a Manhattan si sta meglio che ovunque, non c’è bisogno di andarsene sui monti Catskill (un paio di pagine, e scopriamo il suo segreto).
Nell’ultimo racconto, la statua di Mrs Liberty chiacchiera con la statua di Miss Diana che allora svettava sulla torre del Madison Square Garden. Una appesantita dal peplo verdolino, laggiù in periferia. L’altra dorata, nuda e scattante con l’arco e le frecce, al centro del divertimento cittadino. Liberty è stanca di illuminare gli immigrati che sbarcano a Ellis Island, e cinicamente annuncia «sono tentata di spegnere il gas». Diana la trattiene: «Sono un bel mucchio di derelitti, ma non restano tutti così». Lei li vede, dopo la cura: «ora firmano assegni e si fanno un bagno ogni mattina».