Robinson, 22 febbraio 2020
Krzysztof Wodiczko, il Monument man degli ultimi
Ben prima che i monumenti innescassero dibattiti, proteste e grossi titoli sui giornali su che cosa e chi debba essere commemorato, l’artista concettuale di origine polacca Krzysztof Wodiczko già amplificava la portata della testimonianza dei monumenti commemorativi di tutto il mondo, facendoli diventare qualcosa che va ben oltre le intenzioni dei loro artefici. Dagli anni Ottanta, Wodiczko proietta video su statue e edifici storici, trasfor-mando i monumenti in megafoni destinati a diffondere la voce di chi non ha potere sociale. Veterani di guerra, sopravvissuti di Hiroshima, madri in lutto per i figli ammazzati, operaie sottoposte ad abusi sessuali: dai piedistalli di quei monumenti tutti hanno raccontato le loro storie.
«I monumenti sono utili ai vivi» ha detto Wodiczko presso il suo studio nell’East Village, il quartiere newyorchese dove l’artista settantaseienne abita dal 1983. «In qualche caso raccontare la verità in pubblico è più sicuro e più facile», ha chiosato. In questi giorni due proiezioni pubbliche di grande spessore sociale e politico stanno infondendo nuova vita nei monumenti di Manhattan. Ogni sera e fino al 10 maggio, dopo il tramonto a Madison Square Park i volti di 12 rifugiati accolti nel Paese animano la statua risalente al 1881 realizzata in bronzo in onore dell’ammiraglio David Glasgow Farragut, un eroe della Guerra Civile, su progetto di Augustus Saint- Gaudens. I rifugiati, nella proiezione a ciclo continuo di Wodiczko, raccontano gli strazianti viaggi che li hanno portati negli Stati Uniti dai loro paesi devastati dalla guerra: Siria, Guatemala e Mozambico. «La gente non sa che cosa significhi davvero non avere più uno stato e dover scappare» ha raccontato in un’intervista al telefono una profuga birmana. ( Come altri rifugiati presenti nei video, ha il volto nascosto per tutelare i familiari rimasti a casa). Un afgano scappato dal suo Paese ha raccontato di aver trovato catartica la partecipazione a questo progetto artistico. «Per me è stato molto importante togliermi un peso dal petto. Nessuno al mondo sceglierebbe mai di cercare riparo in un Paese diverso dal proprio. Bisogna proprio essere obbligati a farlo».
Energico quando parla, Wodiczko si definisce un rifugiato, ma l’autobiografia non rientra nel suo lavoro e dice di «essere contrario all’arte incentrata sul proprio ego». «La vicenda umana personale di Krzysztof è segnata dai traumi, ma lui ha un dono quasi speciale: riesce a farsi raccontare vite ed esperienze dalle persone» dice Jill Medvedow, direttrice dell’Istituto di Arte contemporanea di Boston. È lei ad aver commissionato nel 1998 all’artista il Bunker Hill Monument di Charlestown, in Massachusetts, città con un’altissima percentuale di omicidi dal 1975 al 1996, e con un rigidissimo codice del silenzio che ha lasciato irrisolta la maggior parte di quei delitti. Sull’obelisco, l’artista proiettò le testimonianze delle madri che raccontavano l’assassinio dei figli. «In particolare, ricordo in che modo ha convinto quelle donne ad aprirsi e parlare» ha detto Medvedow. «È stata un’occasione per sentirsi uniti, quasi un’esperienza terapeutica».
Wodiczko è nato a Varsavia nel 1943, tre giorni prima dell’inizio dell’insurrezione del ghetto, l’immane prova di forza degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. La famiglia materna fu tra le migliaia di ebrei che persero la vita. Da piccolo, in un primo tempo, l’artista rimase nascosto insieme alla madre che, in seguito, riuscì a passare il confine, entrando in Unione Sovietica. Tra i primi ricordi di Wodiczko c’è il ritorno a Varsavia al termine della guerra. «Fu un ritorno alla devastazione assoluta, a rovine umane e materiali» disse. L’artista ha messo in scena la sua prima installazione in Polonia nel 1969, in reazione alla repressione esercitata dal regime del partito comunista. Dopo essersi laureato in design industriale, creò una cuffia e dei sensori manuali che filtravano selettivamente i rumori per strada e camminò a Varsavia indossando la sua attrezzatura. Strumento personale mostrava Wodiczko nelle vesti di un direttore d’orchestra, mentre esercitava la sua libertà di pensiero, azzittendo «i megafoni che dettavano come dovessimo vivere» sotto il regime autoritario. Alla metà degli anni Settanta, mentre si trovava in Canada a lavorare come visiting artist, Wodiczko fu convocato dal consolato di Toronto che gli comunicò che il governo polacco aveva deciso che avrebbe dovuto vivere in Canada per sempre. «Mi cacciarono fuori dalla Polonia» racconta, ancora incredulo. In seguito, infatti, avrebbe dovuto presentare richiesta di visto per tornare in visita nel suo Paese.
In A House Divided… ora alla Galerie Lelong di Chelsea, Wodiczko cerca di trovare un punto di mediazione nella polarizzazione che minaccia di lacerare gli Stati Uniti. Per la prima volta, i monumenti imbastiscono una conversazione. Due riproduzioni della statua di Abraham Lincoln, alte 2 metri e mezzo, sono collocate l’una di fronte all’altra, e ciascuna è animata dalla proiezione di residenti di Staten Island che nelle elezioni del 2016 si sono schierati quasi esattamente a metà nei due partiti. Wodiczko ha filmato persone che si conoscono – amici, colleghi e famigliari – mentre esprimono le loro opinioni contrastanti, creando una sorta di botta e risposta tra i due Lincoln. Le loro risposte in linea generale sono molto più civili di quanto tradizionalmente riferite dai media, ha osservato. Ciò che più conta è dialogare» dice Wodiczko. «Questo progetto non è una soluzione al problema, più che altro è il riconoscimento del punto di vista di qualcun altro».
Un documentario di prossima uscita, realizzato da Maria Niro e intitolato The Art of Un-War, ripercorrerà la carriera cinquantennale di Wodiczko. Punto centrale è la sua proposta, risalente già al 2010: la trasformazione temporanea dell’Arco di Trionfo di Parigi – che esalta gli eserciti della Rivoluzione e dell’impero francesi – nell’Istituto mondiale per l’abolizione della guerra. L’artista vorrebbe intervenire su questo monumento chiudendolo in una struttura di lattice che permetterebbe al pubblico di osservarne i fregi da vicino e incoraggerebbe i pacifisti a darsi appuntamento sotto di esso. «Questa proposta rappresenta il culmine di tutto il suo lavoro» ha detto Niro. «Wodiczko mette seriamente in discussione la guerra in tutto e per tutto». Anche se questo progetto potrebbe non vedere la luce mentre l’artista è ancora in vita, Wodiczko lo considera «un’ispirazione e una provocazione», e dice che «l’idea originaria dell’Arco di Trionfo è che la strada per la pace è la guerra, mentre si tratta di un’idea assurda». Secondo Wodiczko, quindi, l’Arco di Trionfo è «la madre di tutte le assurdità del mondo» ha detto. E «occorre rimettere in discussione tutto quanto fa parte di questo monumento».
(©2020, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti)