Le nostre ossessioni ci aiutano a riempire i vuoti?
CARLO VERDONE: «Più che le ossessioni ci aiutano i rituali. Danno l’illusione di regolare le cose. Bisogna fare attenzione, però, perché alcuni sono anche pericolosi, si arriva al parossismo, c’è chi torna a casa e deve toccare tre volte il muro, chi verifica dieci volte la chiusura della chiavetta del gas, chi non smette di chinarsi a guardare sotto al letto. Lì siamo nella patologia e serve la psichatria. Ma tutti noi viviamo di piccoli rituali, ci aiutano a scaricarci. Un amico neurologo mi ha detto che oggi siamo tutti bipolari». LORENZO MARONE: «Il rituale fa parte dell’esigenza di staccarsi da sé. Un po’ come i protagonisti del tuo film, che al di fuori del lavoro hanno vite disastrate e cercano la compagnia dei colleghi per evitare di stare in contatto con sé stessi. Ascoltarsi è difficile e la fobia, l’ossessione, ti tengono in equilibrio, ti difendono da questo troppo sentire. Sono anche sintomi di narcisismo, desiderio d’attenzione. Ma soprattutto sono una fuga».
A proposito di fuga: come funziona con le persone che abbiamo intorno? In quanti scappano e in quanti restano accanto a un ipocondriaco?
L. M.: «Sulla vita sociale ha un effetto deleterio. Con le persone, chiamiamole così, di passaggio, può diventare divertente, racconti le tue paturnie, loro ridono e via. Ma nella quotidianità a un certo punto non ti ascolta più nessuno, vieni privato di quelle attenzioni minime che spetterebbero a chiunque. Sei quello che si fa il vuoto intorno e se la deve vedere da solo. Mia moglie non mi accompagna più dal medico». C. V.: «Perché diventi proprio un rompipalle. Bisogna stare attenti perché poi gli altri non ti sopportano più». L. M.: «Il problema è che hai poco da offrire agli altri quando sei troppo occupato a condurre una guerra quotidiana con te stesso. Non riesci a essere generoso».
Finché non provi a risalire all’origine delle tue paure.
C. V.: «Non ho mai nascosto che dopo Non Stop (il programma tv che diede popolarità a Verdone, tra il ‘77 e il ‘79 sull’allora Rete 1, ndr) ho avuto un anno funestato da violenti attacchi di panico. All’origine c’era la mia nuova vita, il successo, la riconoscibilità. Un problema, per uno timido come me. Facevo ridere ma ero una persona riservata, vivevo nel mio mondo tranquillo. Mio padre mi portava con sé alle conferenze, ero sbalordito perché parlava davanti a duecento persone, io non avrei mai avuto il coraggio. A un certo punto tutti cominciarono a riconoscermi, fermarmi, mi sentivo violentato. Avevo le parestesie sul labbro, la narice, sull’orecchio, mi formicolava tutto, andavo in iperventilazione, non guidavo, non camminavo. Un grande psicoanalista mi disse "non posso fare niente, se non ti metti in moto tu, qui non c’è da psicanalizzare proprio nulla"».
L. M.: «Io la chiamo necessità del fare. Puoi evitare la fobia, non prendi l’aereo, scappi davanti al ragno. Ma è meglio affrontarla.
Anch’io quando ho iniziato questo lavoro avevo parlato poco in pubblico, poi il successo di La tentazione di essere felici (Longanesi 2015, ha ispirato il film di Gianni Amelio La tenerezza, ndr) mi scaraventò davanti a tanta gente ogni giorno. A furia di traumi, dopo qualche mese stavo a mio agio.
Se non ci fosse stata la scrittura probabilmente sarei ancora in terapia».
C. V.: «Io all’epoca avevo una fidanzata, Gianna, abitava a Vitinia, poco distante da Ostia. Lo psicoanalista mi disse: "Quando vai da lei, fai il giro più lungo, passa per Ostia".
Oddio, pensai, mi verrà un infarto. Partii con un chilo di gettoni per telefonare in caso di emergenza. Tragedia. La chiamai da Ostia implorandola di venirmi a prendere, sudavo freddo. Il medico fu durissimo, "mi mandi all’aria tutta la cura". Ritentai, la sesta volta andò meglio. Avevo trovato una soluzione: mi ero fissato non sui capogiri ma sulla tachicardia, io che sono brachicardico avevo cento, centodieci... Avevo spostato il problema. Sai che non esistono due dolori, no? Il cervello non ce la fa a stare su due cose. Io ho l’artrosi dell’anca, a breve mi opererò; la sinistra mi fa molto male, anche la destra è compromessa. Ebbene, se la sinistra mi duole, l’altra neanche la sento. Dopo i viaggi Roma-Vitinia il medico mi disse che dovevo seguire la nuova vita che il destino mi aveva assegnato, "impuntarsi è la cosa peggiore"».
Sia in "Inventario di un cuore in allarme" che in "Si vive una volta sola" la morte è uno dei temi centrali.
L. M.: «Non si può parlare di vita senza parlare di morte, dà un senso a quello che facciamo. E torno alla necessità del fare, del conoscere per metterci in movimento e dare valore a quello che Philip Roth chiama "quel breve periodo di tempo in cui siamo vivi". La curiosità è il motore di tutto. Invidio chi non si pone tante domande ma un po’ mi fa paura, temo chi si lascia trasportare dal vento e allonta l’idea della morte senza comprendere il vero significato della vita.
Basta vedere il Coronavirus: crediamo che sia frutto dei nostri comportamenti errati e scansiamo l’idea della morte mentre è il fine ultimo delle nostre esistenze».
C. V.: «Alla fine il Coronavirus che è? Un virus normale con un problema: non c’è la cura.
S’attacca forse meno velocemente dell’influenza che pure fa un sacco di morti fra gli anziani ma nessuno ne parla. Il problema sono i grandi viaggi. Sai quanti cinesi si muovono nel mondo? Miliardi».
Che facciamo, parliamo di paure poi minimizziamo?
L. M.: «Il problema di ignoranza, temiamo ciò che non conosciamo, non abbiamo voglia di guardare che cosa c’è dall’altra parte del mare. E se ne approfitta chi gioca con la paura, è una rincorsa continua a chi strilla di più. Oggi la paura è il perno su cui si fonda la nostra società, parte della politica la alimenta e se ne ciba perché con la paura tutto diventa più gestibile. Il senso del libro è anche questo: le mie paure sono un pretesto per parlare di un sentire comune, delle paure di tutti noi. L’appocundria, come la chiamava Pino Daniele, è figlia della sensibilità, io cerco di combatterla con l’ironia che nella vita serve a parare le mazzate. È vera la cosa di un solo dolore, come dici tu Carlo, ed è vero che una paura se ne va quando ne arriva una più grande.
Però che fatica, è un continuo…».
C. V.: «Devi esorcizzare. Io nella vita ho esorcizzato tutte le cose che mi spaventavano. Da ragazzino con i Lupetti andai in gita nelle catacombe, fu un dramma, un attacco di claustrofobia come non ne ho mai avuti in tutta la vita. Eppure in Grande, grosso e Verdone abbiamo girato nelle catacombe, le cripte di Lucina, sull’Appia, profonde quaranta metri, senza luce, mezza troupe non c’è venuta. Ho avuto orrore dei serpenti ma in Compagni di scuola e Sotto una buona stella ho avuto a che fare con i serpenti. Prima avevo il terrore dell’aereo, delle turbolenze, adesso salgo in aereo e dormo».
L. M.: «Senza aiuti?».
C. V.: «Senza aiuti. Prima li prendevo, ne ho presi talmente tanti che sono diventato fatalista».
L. M.: «Beato te…».
C. V.: «Pensa che quando ebbi i primi attacchi d’ansia, che poi mi avrebbero portato al panico, un medico di famiglia, grande diagnostico, mi disse "ringrazia Dio d’essere ansioso, sennò saresti una testa di c… qualunque. Invece sarai un ipersensibile che creerà". Mi prescrisse Serpax 15 al bisogno, a vita. All’epoca per l’ansia faceva, eccome. La cosa più bella me l’ha detta una signora al bar, all’epoca de La grande bellezza. "Verdone, ma adesso si mette a fare i film drammatici?". Risposi "signora, ho fatto un buon film". "Sì, però non si distacchi dalla commedia, perché lei è il mio antidepressivo privo di effetti collaterali"».
L. M.: «Sei diventato tu una medicina».
C. V.: «Hai capito? Sono andato a trovare un malato oncologico, mi voleva ringraziare perché i miei film gli hanno fatto compagnia durante la terapia del dolore. Mi sono commosso. Uscendo mi sono detto: vedi, un motivo in più per essere orgoglioso di quello che faccio, è stato il premio più grande. Poi nel mio quartiere s’è sparsa la voce, hanno cominciato a chiamarmi, ho visitato sessanta case, situazioni tremende… Ma alla fine ero importante per queste persone. Da malato sono diventato cura. Può darsi che anche la tua scrittura lo diventi per gli altri.
Così come l’amicizia lo è per i protagonisti del mio film».
L. M.: «Ma devi essere fortunato. Serve una persona che sia in un momento della vita diverso dal tuo ma abbia voglia di empatizzare guardandoti da un altro punto di vista. Un altro ipocondriaco non serve a niente».
C. V.: «No certo. Deve essere dotato di ironia, non superficiale, un valido interlocutore che ti faccia comprendere le tue fragilità. Uno che conosce il problema ma non sta male pure lui. L’amicizia è tutto, non condividere equivale a morire. Il mio film è un inno all’amicizia, i protagonisti saranno dei goliardi ma la loro è anche una reazione alla vita che fanno. Però so’ tanto fregnoni…».