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 2020  febbraio 22 Sabato calendario

Le strategie dell’ipocondriaco di fronte al virus

Nel mondo, anche quello lontanissimo da Wuhan, il coronavirus può generare dei sintomi per niente influenzali. Un mese fa aspettavo un’amica a cena. Nel pomeriggio mi telefona per dirmi che tarderà: prima deve passare dalla figlia influenzata per portarle qualche medicina. Niente di più normale. Ma aggiunge: «Devo preoccuparmi? Dieci giorni fa ha cenato con un’amica che rientrava da Hong Kong». Attimo di silenzio, rapida ricognizione cognitiva e poi: «Ma noi non siamo ipocondriaci né sinofobi, vero? Dai, ti aspetto». Sul sito dell’American Psychological Association è apparso il link” Coronavirus anxiety” dove leggiamo: «Questa nuova malattia può spaventare e merita attenzione, ma sappiate che l’influenza stagionale miete più vittime. Perché questo nuovo virus ci fa così paura quando le probabilità di contrarre una normale influenza sono molte di più?». Passando al sito dell’Organizzazione mondiale della sanità, dopo indicazioni su come lavarsi le mani, starnutire e comportarsi in caso di febbre e difficoltà respiratorie, il paragrafo” Affrontare lo stress durante l’epidemia 2019- nCoV” fornisce consigli di buon senso: se sei spaventato parla con persone di cui ti fidi; se ti senti sopraffatto rivolgiti a un operatore sanitario; limita l’esplorazione online e nel caso cerca fonti affidabili.
Ma far “ragionare” un ipocondriaco non è facile e ancor più un cybercondriaco. La fantasia instancabile dei diagnosti ha coniato questo termine per definire l’attrazione fatale dell’ipocondriaco per la navigazione online, il più delle volte destinata a potenziare le preoccupazioni anziché placarle. Hai voglia di dirgli che la diagnosi richiede un esperto… l’ipocondriaco trova sempre quel che cerca. Rinforzando così quel sistema di credenze per cui un mal di testa è un tumore al cervello ( anche quando la risonanza magnetica è negativa).
Ipocondria è il termine classico, datato ma sempre popolare, con cui definiamo una condizione psicologica oggi chiamata, a seconda del quadro clinico, “disturbo da ansia di malattia” o” disturbo da sintomi somatici”. Si tratta, in breve, della paura eccessiva di contrarre una malattia e della convinzione di essere ammalati in base all’interpretazione erronea di segni e sintomi fisici. Basta niente, una notizia sul giornale, un guaio di salute di un conoscente, e scatta l’allarme. Anche se Jaspers, grande psichiatra del secolo scorso, ci ricorda che «il malato immaginario è veramente malato», spesso i medici lo liquidano in fretta. Ascoltarlo esporre nel dettaglio la sua storia medica può essere faticoso ma anche stimolante. L’esercito degli ipocondriaci, uomini e donne in egual misura, è abbastanza numeroso: attorno al cinque per cento dei pazienti che si rivolgono al medico di base (stime approssimative parlano di circa 4 milioni di persone in Italia). Il loro santo protettore non può che essere Argante, il malato immaginario di Molière.
A grandi linee, esistono due tipi di ipocondriaci: quelli che son sempre dal medico e quelli che non ci vanno mai, troppa paura. Ma il centro del pensiero di entrambi è occupato da ogni funzione corporea, dal battito cardiaco alla peristalsi intestinale, ogni minima alterazione della pelle, ogni sensazione inconsueta come una piccola vertigine.
Perché si chiama” ipocondria”? Come sempre dobbiamo risalire ai nostri amati medici greci, per esempio Ippocrate, che attribuiva la malattia a disturbi dei visceri posti sotto ( hypó) la cartilagine ( chondríon) del diaframma costale. Secoli dopo, Galeno sarà il primo a descrivere la melanconia come una “malattia ipocondriaca”, ma solo a partire dal Settecento l’ipocondria diventerà a pieno titolo cittadina della psicopatologia, con sfumature ora isteriche ora depressive. A fine Ottocento, Kraepelin suggerisce un’interessante distinzione tra hypochondria cum materia (disturbi “reali” ma sopravvalutati) e sine materia (disturbi senza alcuna base “oggettiva"). Freud, che un po’ la pativa, sentiva «l’oscurità che la circonda come un’onta per i nostri sforzi».
In altre parole, difficile capirci qualcosa, perché l’ipocondria in fondo è un punto di vista depressivo sulla nostra fragilità; arriva da lontano imboccando diverse strade. Secondo alcune ricerche, spesso nell’infanzia dell’ipocondriaco si annidano esperienze di malattia propria o di un familiare. Ma anche un eccesso di preoccupazioni materne rivolte al corpo del bambino, che dunque crescerebbe nella convinzione di essere prezioso ma vulnerabile e comunque troppo esposto ai venti della vita. Quello degli ipocondriaci è un corpomente ipervigile e assillante, sensibile e bisognoso di protezione. La loro preoccupazione ostinata porta con sé il lamento di chi cerca rassicurazione e l’ombra depressiva dell’inconsolabilità. Nel pieno della crisi si sentono esiliati dal movimento vitale, vulnerabili e imperfetti. Il loro stile può essere narcisistico («la malattia affligge la mia fortezza»), ossessivo («la mia salute sfugge al mio controllo»), fobico («il mondo è contagioso»), malinconico («la salute è perduta per sempre») o depressivo («la malattia è un annuncio di morte»). Ma soprattutto diversa è la gravità del quadro psichico: dal nevrotico capace d’ironia (Woody Allen che dice: «Le due parole che uno più desidera sentirsi dire non sono “ti amo”, ma “è benigno"»), al borderline sopraffatto dall’angoscia allo psicotico paralizzato dal delirio. Di conseguenza il trattamento non è mai unico o univoco: chi si giova di una cura farmacologica; chi di una psicoterapia cognitiva che tenga a bada ruminazioni, pensieri circolari e comportamenti obbligati; chi trae beneficio dalla profondità della narrazione e dell’esperienza psicoanalitiche.
Non sempre i pazienti ipocondriaci accettano che qualcuno dica loro che il problema è più psicologico che organico e così continuano a peregrinare tra medici di base e specialisti, alla ricerca di qualcuno disposto ad ascoltarli, visitarli e, implicitamente, “contenerli”. Anche la posizione del medico non è facile: i racconti dei pazienti non vanno mai sottovalutati; l’ansia di malattia non va sempre assecondata; il paziente non va abbandonato alle sue peregrinazioni, con medicalizzazioni inutili e senza fine. Proprio perché trasversale a diverse organizzazioni di personalità e condizioni esistenziali, è importante valutare il livello di gravità del quadro ipocondriaco. Talvolta la convinzione o la paura di avere una malattia è l’unica risposta che una persona riesce a dare a una sofferenza mentale inesplorata. Forse anche per questo l’ipocondriaco non sembra soddisfatto quando il medico gli dice: «Lei non ha niente». Al medico, ancora una volta, è richiesta una tensione, un tormento: né medicalizzare troppo né psicologizzare troppo. Deve saper fare una cosa difficilissima: mettersi in relazione con la psiche del corpo.
(PS. La figlia della mia amica aveva una semplice influenza, ma non mi sognerei di definire “ipocondriache” le doverose misure preventive che un paese mette in atto nei confronti di viaggiatori in arrivo da zone a rischio).
Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista ha scritto, tra gli altri, il libro Diagnosi e destino (Einaudi)