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 2020  febbraio 22 Sabato calendario

Orsi & tori

A chi la tocca la tocca, diceva Renzo nei Promessi sposi a proposito della peste. La saggezza e rassegnazione di Renzo può forse essere applicata a Covid-19 (era tanto più garbato il nome precedente con la corona), ma non alle banche destinate a essere target per acquisizioni e incorporazioni. Specialmente se a muovere verso la conquista è Intesa Sanpaolo, non solo la maggiore banca italiana e una delle più solide, se non la più solida d’Europa, ma la banca con il vertice più lucido e capace. La coppia formata dal capo assoluto Carlo Messina e dal presidente della controllata Banca Imi da anni non ne ha sbagliata una di operazione e soprattutto i due hanno il principio di non derogare dai parametri di prezzo attentamente calcolati prima di muoversi. E così è anche per l’ops lanciata su Ubi. Ma qual è il prezzo che hanno deciso di pagare per la terza banca italiana? Quello comunicato di 4,7 miliardi con scambio azioniario, oppure uno più alto? Il ceo Carlo Messina ha finora smentito, legittimamente e saggiamente, che la sua banca sia disponibile a cambiare all’insù il prezzo, ma nelle operazioni di opa od ops, visto che si tratta di un offerta non concordata, può sempre accadere qualche aggiustamento. Le aree di intervento possibili sono tante e se Messina con la collaborazione di Gaetano Miccichè si accorgerà che con qualche modifica dell’offerta l’operazione potrà essere chiusa, sono sicuro non si tirerà indietro. Infatti, per qualsiasi banca delle dimensioni di Intesa Sanpaolo è ormai tassativo, per volontà delle autorità di Francoforte, integrarsi. E saggiamente Messina ha puntato su Ubi, che oltre a essere una banca sana e la terza del Paese, è anche gestita con la stessa filosofia. Per almeno due motivi sostanziali: la gestione di Ubi da parte di manager, in primo luogo il ceo Victor Massiah, provenienti proprio da Intesa; ma ancor più la contemporanea presenza nelle due banche di un personaggio fondamentale come il professor Giovanni Bazoli, presidente d’onore della banca leader italiana, ma prima ancora fondatore di Intesa Sanpaolo e azionista di Ubi, di cui ha favorito la nascita attraverso la fusione fra la Popolare di Bergamo e la Banca di Brescia.
Messina e Bazoli non hanno sicuramente avuto bisogno di parlarsi. E il ragionamento che ha fatto Bazoli è molto probabilmente il seguente: se fusioni ci devono essere, per volere non necessariamente condivisibile delle autorità di Francoforte, allora è meglio che Ubi, potenziale attore di fusioni con unità più piccole, convoli a nozze con la banca leader italiana, in modo che non ci sia bisogno fra qualche anno di ripetere l’operazione, mettendo al sicuro tutto il suo valore. E simmetricamente il ragionamento di Messina, in collaborazione con Miccichè, è stato molto probabilmente il seguente: se proprio dobbiamo aggregarci, meglio farlo con la banca più grande aggregabile, cioè la terza, visto che la seconda, Unicredito, non è aggregabile per dimensione e anche non proprio desiderabile, nonostante il lavoro di Jean Pierre Mustier; a maggior ragione la preferita è Ubi per stessa cultura e quindi per semplicità di dialogo.
La risposta, anche dura, della maggiore delle organizzazioni per il coordinamento degli azionisti, Comitato azionisti di riferimento (Car), che raccoglie il 17,8%, non deve trarre in inganno sulle possibilità di successo dell’ops lanciata da Messina. Infatti, c’è un altro 8,4% degli azionisti bresciani che quasi sicuramente è favorevole. E del resto, se invece si unisse nella risposta negativa al Car, il Sindacato azionisti di Ubi, non potrebbe mai generare quel 34% che è necessario per bloccare l’ops, mentre unendosi i due organismi correrebbero il pericolo del coordinamento e quindi il rischio che la Consob possa imporre a loro di lanciare l’opa. Ciò vale a maggior ragione se si unisse ai due maggiori anche il Patto dei mille, che possiede l’1,6% formato da azionisti bergamaschi.
È la struttura dell’azionariato di Ubi, che analizzata a fondo da Imi e Mediobanca (si, Mediobanca, essenzialmente per il rapporto di fiducia di Messina con Francesco Canzonieri) ha mostrato caratteristiche ideali per l’ops. Infatti, la grande maggioranza delle azioni è in mano a fondi che ragionano sul capital gain, non sugli assetti di potere o relazioni. E il prezzo offerto da Intesa equivale a un più 27% rispetto ai prezzi di borsa prima del lancio dell’ops. Soprattutto, a molti fondi può piacere che in questo modo possano diventare azionisti di Intesa Sanpaolo, che è di gran lunga la banca che ha offerto i migliori rendimenti in termini di dividendo e di prezzo di borsa negli ultimi anni.
Il Car, dichiarandosi contrario all’ops, l’ha bollata come operazione non solo Intesa Sanpaolo ma Intesa Sanpaolo più Unipol. Infatti, parte dell’operazione è la vendita a Biper, posseduta al 20% da Unipol, di 400-500 sportelli (vendita obbligata per evitare l’antitrust) per 1 miliardo di lire. Ben lungi da essere un difetto, il fatto che con una sola mossa si raggiungano due obiettivi ha la positività di rafforzare Biper affinché possa essere una banca aggregante. Del resto, Carlo Cimbri, presidente di Unipol e anima fondamentale di Biper (nonostante le mosse che compie siano felpate), è da sempre in ottimi rapporti con l’advisor Mediobanca di Intesa Sanpaolo e ha buoni se non addirittura ottimi rapporti con Messina.
Il fatto che con una sola mossa si raggiungano due obiettivi ha avuto sicuramente un forte peso per il pieno gradimento dell’operazione da parte delle autorità di controllo di Francoforte. Infatti, se tutta l’operazione andrà in porto, Biper diventerà una delle possibili banche adatte a integrarsi con Mps, magari in competizione con Banco Bpm. Oppure sono le due banche ex popolari che potranno integrarsi diventando a loro volta la terza banca del Paese. È corretto ipotizzare anche questa unione, perché non è detto che alla fine né biper né Banco Bpm siano disponibili a integrarsi con Mps, dove Marco Morelli, che ha fatto a Siena veri miracoli, ha comunicato di non essere disponibile a rimanere ceo della banca controllata dal Tesoro.
Morelli ha fatto un lavoro ottimo; ha lavorato duramente; eppure, neppure una voce del governo si è finora levata per ringraziarlo. Fra tutti i banchieri italiani, Morelli ha sostenuto il peso più grave e lo ha fatto con professionalità e trasparenza. È auspicabile che almeno il Comune di Siena e la Fondazione Monte dei Paschi gli tributino un ringraziamento pubblico e caloroso. Così c’è da augurarsi che anche l’attuale governo, il quale lo ha trovato e non nominato ai vertici della più antica banca italiana sull’orlo di un clamoroso crack, imiti gli enti locali senesi.
Ma la decisione di Morelli non è il solo movimento che si registra ai vertici di banche da tempo sotto i riflettori. Il più gettonato verso l’uscita è Mustier, con addirittura una possibile doppia destinazione. La prima è una delle maggiori banche del mondo, HSBC, che ha chiuso un anno in fortissimo calo di utili, pur rimanendo ai vertici globali. Mustier è l’uomo che, dopo aver imposto la cravatta rossa a tutti i top manager e aver distribuito come portafortuna centinaia e centinaia di alcette di peluche, come gli aveva consigliato la sua responsabile della comunicazione di nazionalità svedese, ha proceduto a una decisa azione chirurgica per Unicredit. La banca si è ridimensionata, ma i risultati sono positivi. Dopo la permanenza nella Legione straniera francese, Mustier si era specializzato soprattutto come banchiere d’affari, nello stesso Unicredit ai tempi di Alessandro Profumo. Indubbiamente, senza paura di tagliare e vendere per fare cassa, non vi è dubbio che Mustier abbia rimesso in linea Unicredit, ma non è facile che la banca creata da Profumo (ora in forte spolvero a Leonardo), unendo al Credito italiano varie banche territoriali, sia una banca con reali ambizioni europee, andando a svilupparsi soprattutto in Germania, alla prova dei fatti il peggior Paese per la prosperità delle banche. Nella logica di tagliare senza esitazione, Mustier ha venduto banche nei Paesi ex comunisti, come la Polonia, dove invece era possibile fare buoni affari.
Non solo per la possibilità che Mustier lasci la banca italo-tedesca, ma anche per la sua stessa struttura, Unicredit non ha un futuro chiarissimo. Le vendite hanno risolto problemi di capitale, ma hanno anche fatto perdere strutture, come Pioneer e Fineco, all’avanguardia per la tecnologia. Ma Mustier è un duro e non ha esitato un attimo a dire che Unicredit ha ancora esuberi pari a 5 mila unità. La gestione non sarà facile nonostante i bancari siano rassegnati al fatto che il digitale e la conseguente intelligenza artificiale mieteranno vittime a migliaia in tutto il sistema, come parte della previsione che nei prossimi dieci anni (previsione del guru Kai-Fu li) in tutto il mondo e in tutti i settori saranno persi il 40% dei posti di lavoro dei colletti bianchi, non dei colletti blu.
Non vi è dubbio che Mustier oltre al coraggio e alla competenza abbia forte il dovere dell’innovazione, che con lui ha riguardato perfino la nascita del primo studio di avvocati in forma di spa (UniQlegal), di cui Unicredit ha una quota del 9%. E con questo studio, Mustier non solo ha affrontato in modo diverso dalle altre banche le problematiche degli npl, ma ha anche creato uno staff legale utile per ogni operazione, non interno ma controllato.
Ma come nel gioco della dama, quando si muove una pedina vincente prende avvio una reazione a catena e infatti, anche se non direttamente collegati, sono oggi sul mercato altri banchieri di peso, che hanno a che fare con l’Italia. In primo luogo, Andrea Orcel, che dopo essere transitato in Svizzera, era approdato al Banco Santander, entrando immediatamente, per ragioni di stipendio, in contrasto con la presidente, Ana Botin, che ha ereditato il posto dal padre. Orcel, prima della Svizzera era stato ad alto livello in Italia e ora può essere candidato sia direttamente a HSBC o a Unicredit, se alla banca angloasiatica andasse Mustier. E di fatto se non proprio alla ricerca (visti i guadagni fatti negli ultimi anni) ma certamente disponibile a un nuovo posto di prestigio è Sergio Ermotti, ticinese che prima di salire al vertice di UBS, ora abbandonato, era stato proprio in Unicredit come capo del corporate con Profumo. Esattamente il posto ricoperto anche da Mustier prima di lasciare Unicredit per poi rientrarci. Una specie di gioco dei quattro cantoni, si potrebbe dire.
Ma anche qui non vale la rassegnazione e la saggezza di Renzo. A chi la tocca la tocca per niente. Se il risiko delle banche voluto da Francoforte nell’illusione che creare sempre maggiori colossi possa essere positivo per le stesse banche, in realtà ignorare la funzione delle banche di territorio è un grave errore a danno delle aziende, specialmente in Italia dove il sistema imprenditoriale è formato da piccole aziende, prevalentemente srl. In passato le aziende italiane sono state finanziate dalle banche al 94% del fabbisogno, non essendoci altra fonte di capitali. Oggi, per le regole europee, le banche hanno sempre più difficoltà a finanziare le pmi e la nuova legge assurda sulle srl, che coinvolge in pieno la responsabilità degli amministratori in caso di difficoltà delle società, sta per rendere ancora più difficile i finanziamenti da parte delle banche. Quindi, per favore, non sparate sulle banche territoriali, oppure, Signori di Francoforte e di Roma, imponete che tutte le banche maggiori, Unicredit in testa, facciano una banca nella banca, la Banca dei territori, come ha fatto Messina in Intesa Sanpaolo affidandola a un banchiere vero come Stefano Barrese, che ogni giorno si inventa idee di marketing e innovazione tecnologica per valorizzare i piccoli campioni nascosti italiani, creando emulazione. (riproduzione riservata)