Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2020
I colpi di spugna di Trump
Nei giorni scorsi ha destato clamore il fatto che il presidente americano Donald Trump abbia concesso la grazia a Michael Milken. È il finanziere che negli anni 80 si guadagnò l’appellativo di re dei junk bond, i titoli ad alto rendimento al centro di diversi terremoti finanziari, compreso il crollo di Borsa del settembre 2008 che segnò l’inizio della più grande crisi recessiva del secondo dopoguerra. A prescindere da qualunque valutazione sulle persone coinvolte nelle vicende statunitensi, l’episodio è solo l’ultimo emblematico esempio del rapporto ciclico che esiste tra l’interesse dei politici a gonfiare bolle finanziarie, i rischi di danni sistemici, e la tendenza dei cittadini a dimenticare, aumentando le probabilità che il ciclo vizioso tra politica e finanza tossica si ripeta.
Per descrivere tale ciclo occorre innanzitutto ricordare tre risultati empirici della più recente analisi economica. In primo luogo, non tutte le recessioni economiche sono uguali, in termini di danno macroeconomico, calcolato come perdita complessiva di prodotto interno lordo. Se il danno è calcolato tenendo conto di profondità e durata di ogni recessione, si scopre che le crisi economiche più dolorose sono quelle causate dalle bolle finanziarie. In secondo luogo, la bolla finanziaria è tanto più probabile quanto più vi è un eccesso di creazione di credito; un evento che chiama in causa anche le possibili responsabilità sia della politica monetaria sia della regolamentazione bancaria.
Sorge allora la domanda: come mai chi ha informazioni migliori sia sul rischio di bolla finanziaria che di eccesso di credito – quindi i supervisori bancari in generale e le banche centrali in particolare – tendono a diventare sordi rispetto ai segnali di allarme che tali informazioni possono contenere?
La risposta viene data da un terzo risultato empirico: esiste una correlazione – che condiziona i controllori – tra popolarità del governo in carica e probabilità che successivamente scoppi una bolla finanziaria alimentata da un eccesso di credito.
Non basta: tale correlazione è tanto più forte quanto la qualità del governo in carica è bassa. La spiegazione più semplice è che tanto più un politico è mediocre tanto più il credito può divenire una leva importante per aumentare il consenso tra i cittadini, anche se questo aumenta il rischio di una recessione da bolla finanziaria.
Insomma, con uno slogan: «Il consenso prima di tutto, poi (magari) il Paese». Un’analisi empirica relativa a 60 Paesi dal 1984 al 2012 mostra che il nesso tra opportunismo politico e finanza tossica è empiricamente verificato nelle economie emergenti.
Inoltre le recessioni da bolla finanziaria possono ripetersi, anche nello stesso Paese, perché i cittadini dimenticano. Ritornando al caso degli Stati Uniti, vengono in mente le parole pronunciate da Paul Volcker, già governatore della Federal Reserve tra il 1979 e il 1987, chiamato in tutta fretta nel 2009 dall’allora presidente americano Barack Obama al capezzale del sistema bancario americano. L’ex governatore diede un contributo decisivo alla riscritture delle regole finanziarie, con l’obiettivo di ridurre la possibilità per i banchieri di assumersi rischi eccessivi.
Nel 2017 Volcker si era detto preoccupato, notando l’affievolirsi dell’impegno a considerare la difesa della stabilità finanziaria una priorità. Se diminuiscono impegno ed attenzione, anche per il passare del tempo, il rischio che l’opportunismo politico ricompaia diventa più alto.
Negli Stati Uniti, la convenienza politica – va detto sia democratica che repubblicana – aveva fatto crescere la bolla del debito privato, assecondata da una politica monetaria della Fed eccessivamente espansiva, provocando la Grande crisi del 2008.
Con la presidenza Trump la politica del colpo di spugna è ritornata di attualità.
È iniziata un’azione sistematica di discredito con le parole e di smantellamento con i fatti della politica bancaria disegnata durante la presidenza Obama.
Il motivo di fondo è sempre uguale: sono nocive quelle regole che riducono direttamente la libertà dei banchieri di definire in che settore operare, a che prezzi e con quali volumi. Mentre la deregolamentazione produce efficienza e stabilità. Lo diceva anche l’allora governatore della Fed Alan Greenspan nel 2002. Sappiamo tutti come è andata a finire.