Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  febbraio 22 Sabato calendario

Intervista a Guido Scarabottolo

«I libri che illustro li tradisco sempre. Ogni lettura li tradisce. Un testo, a dire il vero, non riesce mai a rispecchiare esattamente nemmeno le intenzioni del suo autore. La lettura è sempre diversa dalle intenzioni di chi ha prodotto il testo ed è diversa per ognuno dei lettori. Il contenuto esatto di un libro non esiste: tutte le letture sono un tradimento, oppure nessuna lo è». Guido Scarabottolo, 73 anni, architetto, grafico, disegnatore (dal 2003 al 2015 ha curato tutte le copertine di Guanda), collaboratore di quotidiani e riviste in Italia e negli Stati Uniti (Internazionale, Domus, New York Times e New Yorker) in queste settimane sta esponendo a Milano le tavole originali con cui ha illustrato La prima frase è sempre la più difficile della poetessa polacca Wisława Szymborska. È l’occasione per fare i conti con il suo lavoro, con gli scrittori, con i libri e con questo tempo sospeso fra l’età della carta e l’età dei monitor. 
Il volume, tratto dal discorso che Szymborska fece nel 1996 quando ritirò il Premio Nobel per la letteratura, affronta il tema della creazione artistica. Anche per lei il primo tratto è sempre il più complicato?
«Sì, è così. Il primo disegno è sempre il più difficile. Ed è questo il motivo che mi ha convinto a collaborare a questo progetto. Quando si tratta di illustrare un testo che c’è già sono sempre un po’ agitato perché non sono convinto di stare facendo qualcosa di legale. Illustrare un testo è un po’ come dargli dei confini mentre la scrittura è importante proprio perché apre delle finestre. Deve essere aperta a qualsiasi interpretazione. Darne una con un disegno è, in qualche modo, limitarla».
Szymborska sostiene che la vera ispirazione nasce dal non smettere mai di dirsi «Non lo so». Condivide questa riflessione?
«Dire "Non lo so" dovrebbe essere il punto di partenza di qualunque persona con un minimo di cultura mentre oggi quest’espressione è diventata una rarità. Per me l’ispirazione è un meccanismo in parte inconsapevole, che comunque prevede di essere curiosi e affamati di sapere. Se si incamerano informazioni in qualche modo poi queste si mescolano e fanno germogliare delle idee, dei segni, dei racconti, delle poesie».
Parlando del lavoro della Szymborska lei ha detto che «dà profondità alla lingua quotidiana». Cosa intende?
«Usa una lingua famigliare, normale, non una lingua aristocratica o aulica. Non sono un grande lettore di poesie ma della Szymborska ho letto tutto quello che ho trovato perché il suo è un linguaggio praticabile anche per me. Parlare di cose complesse con parole semplici, come fanno anche i saggisti anglosassoni, mi piace molto. È quello che cerco di fare anch’io con i miei disegni».
C’entra qualcosa con il suo bisogno di disegnare velocemente?
«Tutta la parte virtuosistica del disegno mi interessa poco. Io non mi sento un grande disegnatore: sono autodidatta, sono laureato in Urbanistica e ho fatto sempre scuole dove il disegno non esisteva come materia. Nulla a che vedere con disegnatori naturali come Andrea Pazienza o Gipi. La mia è una specie di scrittura per immagini e mi accontento di questa. E poi penso che meno informazioni dai, più lasci libero il lettore di aggiungere. E così il tuo disegno si arricchisce. Se fai un disegno ultra dettagliato accontenti il lettore. Se invece ti limiti a fornirgli degli indizi, lo aiuti a essere più attento, più creativo».
Less is more...
«Diciamo che se avessi capito l’Infinito di Leopardi quando avevo 17 anni mi sarei risparmiato un sacco di fatica. È già scritto tutto lì: l’avere la vista un po’ coperta, il doversi immaginare le cose e poi il poter naufragare nelle cose che ti sei immaginato. Ecco la cosa che davvero mi piacerebbe riuscire a fare».
Lei oggi realizza libri d’artista ed è amato tanto dal grande pubblico quanto dai galleristi più esigenti. Da dove è partito?
«Mi sono laureato in Architettura, una scelta più ideologica che di passione. Ad un certo punto, però, mi sono dovuto confrontare con dei fallimenti teorici e mi sono reso conto che l’Urbanistica, una disciplina tecnica che coinvolge la vita di migliaia di persone, non faceva per me. Bisogna avere un ego abbastanza sproporzionato per fare l’urbanista e quindi sono finito a lavorare con un gruppo di amici che faceva allestimenti fieristici. Come cliente avevamo il Salone del fumetto e del cinema d’animazione di Lucca e in quel momento il fumetto d’autore stava esplodendo a livello internazionale. Entrando in contatto con gente come Hugo Pratt la passione per il disegno, che era latente e a cui avevo un po’ rinunciato, si è rifatta viva».
Cosa non deve mai mancare sulla sua scrivania?
«Mi bastano un pezzo di carta, una matita e un computer. Ormai bisogna fornire un file ed è inevitabile lavorare in digitale; è anche molto comodo. Ci sono programmi di disegno molto raffinati che imitano benissimo i risultati del lavoro manuale. Quando disegno sulla carta mi piace usare cose di cattiva qualità: pennellacci cinesi per le grandi dimensioni, matita e biro per quelle piccole. Non uso gomme perché mi piace che resti la storia di quello che ho fatto. E poi, visto che disegno rapidamente, al limite preferisco rifare un’immagine piuttosto che correggerla. A volte compro della carta particolare o dei quaderni vecchi e bellissimi ma poi non ho il coraggio di aprirli e quindi li tengo chiusi nell’armadio. Amo anche sperimentare: recentemente ho comprato delle matite da boscaiolo che si usano per segnare i tronchi da tagliare».
Che tipo di lettore è?
«Sono partito dai russi quando avevo 15 o 16 anni ma il grande romanzo mi è sempre piaciuto fino a un certo punto. Dal 1968 al 1977 ho messo da parte la letteratura perché era un periodo in cui si leggevano soprattutto saggi. Poi, cercando qualcosa di più complesso e di meno schematico, mi sono rimesso a leggere romanzi e nel giro di qualche anno ho letto tutti quelli che bisognerebbe leggere. Oggi cambio spesso. Uno degli ultimi autori che ho apprezzato è il giornalista Michael Pollan, autore de Il dilemma dell’onnivoro. Scrive di cibo, scrive cose divertenti e anche molto bene». 
Come lavora per illustrare un libro? E una copertina?
«Se devo illustrare un libro lo leggo, una copertina invece no. Non c’è tempo. Oggi le copertine si fanno sei mesi prima dell’uscita e molte volte quando te la commissionano i testi non sono ancora stati scritti o tradotti. L’illustratore ha in mano solamente un abstract. Sono solo poche righe ma di solito sono sufficienti perché poi il tuo lavoro viene valutato da chi il libro l’ha letto e lo sta pubblicando. Se leggi un libro hai troppe informazioni e fare la copertina, paradossalmente, diventa più difficile. Meglio un riassunto ben fatto». 
Come si costruisce l’identità «estetica» di una casa editrice?
«Una casa editrice italiana dovrebbe essere riconoscibile dalle copertine ed è quello che ho cercato di fare con Guanda. Credo che la funzione di un editore sia quella di filtrare tutto quello che viene prodotto al mondo e di fare da garante per il lettore. E così sai che se compri Adelphi o un Giallo Mondadori stai acquistando due cose diverse. Credo che gli uffici marketing delle case editrici, però, non condividano questa mia idea. Mi pare che la scuola americana - cioè il prestare meno attenzione alla riconoscibilità - abbia preso il sopravvento».
Non sembra entusiasta del panorama editoriale...
«Guardandomi intorno sul treno o in metropolitana mi sembra che oggi si legga meno. Contemporaneamente mi rendo conto che si continuano a stampare migliaia di titoli. Siamo in un periodo di sovrapproduzione di tutto, non soltanto di libri ma anche di auto, di scarpe, di vestiti. Viviamo dentro un’enorme bolla e forse stiamo cominciando ad accorgercene». 
La carta, intesa come supporto privilegiato della cultura, è in crisi. È solo un cruccio da nostalgici?
«Io parlerei più in generale della crisi di tutte le cose che stanno ferme e che una volta stavano sui libri o sui giornali. Grazie ai file oggi ti puoi mettere in tasca una biblioteca, una cineteca o una discoteca. La carta ha perso il monopolio della trasmissione e della conservazione dell’intrattenimento, della cultura e dell’informazione. La crisi c’è ed è una cosa a cui bisognerebbe dedicare un po’ di attenzione e non perché sia necessariamente una cosa tragica. Quello a cui stiamo assistendo è un cambiamento di paradigma: bisogna capire se scrittura, disegno e fotografia - le cose che stanno ferme - hanno una qualche ragione di sopravvivenza».
Ne ha intuita qualcuna?
«Io sono convinto che scrittura, disegno e fotografia qualche pregio ce l’abbiano. Quando sei di fronte a queste cose sei tu che controlli il tempo. Quando leggi un libro sei completamente libero di divagare quanto vuoi e il libro sta lì fermo, ti aspetta. C’è un rapporto rispettoso. Le cose che si muovono, invece, costringono un pochino alla passività. Se guardi un film sei preso dalla narrazione, dal movimento e dallo sviluppo e queste cose un po’ ti controllano. La lettura, e per lettura intendo anche il fermarsi a guardare un quadro, è più aperta a una partecipazione attiva».