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 2020  febbraio 22 Sabato calendario

Intervista all’ex ballerina Sylvie Guillem

«Sul palco è come lo champagne», disse di lei Rudolf Nureyev. «È la liberazione dal grigiore», per Maurice Béjart. Sylvie Guillem è stata una delle ballerine più importanti del Novecento, ma soprattutto una donna coraggiosa. Il coraggio l’ha resa libera di voltare le spalle allo stesso Nureyev - che l’aveva nominata étoile dell’Opéra di Parigi a soli 19 anni, la più giovane di sempre - per il Royal Ballet di Londra e per una carriera da solista; di ritirarsi dalle scene all’apice del successo e di diventare, oggi, una guerriera animalista e ambientalista, a fianco di Sea Shepherd, l’associazione guidata da Paul Watson.
Nasce a Parigi. In che famiglia?
«Molto semplice, modesta. Mia madre insegnante di ginnastica artistica, mio padre ingegnere, casa in periferia».
Sua madre l’avvia alla ginnastica, diventa una promessa olimpica, poi a 11 anni scopre la danza. Cosa aveva in più della ginnastica?
«Il palcoscenico, il sipario che si apre».
Étoile a 19 anni. Che ha visto in lei Nureyev?
«Peccato non poterlo chiedere a lui. Sapeva che la carriera di una ballerina è veloce, che non bisogna aspettare, nonostante le regole dicessero il contrario. Ma lui delle regole se ne fregava. Immagino abbia visto in me qualità e la fame di salire sul palco e abbia provato».
Una carriera pazzesca, 39 anni di successi e poi a 50 anni la decisione di ritirarsi. Quanto ha sofferto?
«Abbastanza. Pensavo che un taglio netto fosse meglio di un dolore che mi corrodesse come un veleno, ma tanto netto non lo è stato. È che avevo visto grandi ballerini che avevano fatto un passo di troppo sul palco e avevo provato un grande dolore. Non volevo questo per me, arrivare ad impietosire il pubblico. Dovevo decidere io quando dire basta, prima d’essere obbligata a farlo».
Ha lavorato molto?
«Avevo le qualità fisiche, ma senza il lavoro non raggiungi la qualità. La gente pensa che sia sufficiente ballare, ma per esaltare il personaggio devi interpretarlo, trasmettere che cosa senti, il carattere. Sì, ho lavorato davvero molto e me ne sono resa conto solo quando ho smesso».
Di lei hanno detto: altera, snob, intollerante, bellissima, scomoda…
«Bah, mi riconosco in poche di queste definizioni. La verità è che io facevo il mio mestiere con rispetto e lavoro e mi aspettavo fosse riconosciuto. Se non accadeva, lo dicevo. E così anche quando vedevo in teatro gente, dagli attrezzisti ai direttori di compagnia che non mettevano nella loro opera intelligenza, passione, onestà, talento. Il teatro è un posto eccezionale e tu devi essere eccezionale. Non c’è spazio per l’approssimazione, l’arrivismo, l’arroganza».
L’hanno soprannominata Miss No. 
«Il primo l’ho detto al coreografo Kenneth McMillan ed era stata una bomba. Come ha osato, dicevano… Ma non era per mancanza di modestia. Io volevo scegliere quando, cosa, chi. Perché sul palco volevo essere libera, leggera, luminosa. Champagne, come sosteneva Nureyev. Il quale però diceva anche che prima di salirvi mi prendevo a pugni in faccia, tanto ero dura con me stessa. Rigorosa, perfezionista».
Dimentichiamo la danza. Oggi è animalista, ambientalista, vegana. È stato un processo lungo o un taglio netto anche questo?
«Mi ci è voluto tempo per arrivare a una decisione più radicale, l’essere vegana. Ma prima non avevo mai fatto male a un animale. Semplicemente facevo come tutti: la carne la mangiavo per abitudine, anche se non mi piaceva. Finché ho visto un docufilm e ho reagito in modo profondo. Mi sono informata, ho studiato. E ho deciso che dovevo cambiare, che non era tardi e che non avrei più voluto far parte della sofferenza degli animali, della natura. Senza compromessi».
Rigorosa come nella danza. Finanche al boicottaggio.
«Se l’umanità vuole salvarsi deve prendere le cose in mano. Da una parte ci sono le lobbies, le mafie, la politica e dall’altra ci sono quelli che consentono loro di vivere, vale a dire noi. Se noi non usiamo più plastica, non mangiamo più carne, più prodotti agricoli e industriali tossici loro smetteranno di produrre. Diversamente, non lo faranno».
Perché Sea Shepherd?
«Per il discorso intelligente, umano, chiaro di Paul Watson, il suo capo. Perché combatte sul campo con coraggio, contro le spadare, il massacro dei globicefali, mettendosi tra le balene e gli arpioni. Per la coerenza: sulle sue navi tutti sono vegani».
Che ne pensa di Greta Thunberg? La loro sarà una generazione migliore?
«Spero di sì. Il problema è che abbiamo già distrutto l’80% del mondo che spetta loro. Ma non possiamo lasciare a Greta e agli altri giovani la responsabilità del futuro: bisogna agire adesso, informandoci ed educando noi stessi, quindi educando i nostri figli. Facendo loro anche paura, sì. Perché quello che sta accadendo fa paura».