La Stampa, 22 febbraio 2020
Né urlo né furore
Fra poco più di un mese (il 29 marzo) torneremo a votare per dire sì o no a una riforma costituzionale, quella che riduce i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Stavolta, a differenza delle precedenti (riforme Renzi del 2016 e Berlusconi del 2006), non c’è urlo e non c’è furore, non c’è allarme democratico, nessuna restaurazione del fascismo né partigiani alle armi. Ed è stravagante, visto che la mutazione costituzionale non è complessiva ma basata sul presupposto, dozzinale e facinoroso, che i parlamentari, cioè i rappresentanti del popolo nel luogo in cui si decide sul popolo e in nome del popolo, costano e non servono a nulla. Proprio un’idea brillante di democrazia. E infatti, dopo la scontata vittoria dei sì, avremo il numero di eletti in rapporto ai cittadini più basso d’Europa. Saranno truppe snelle sempre più controllabili dal boss e dunque sempre più agli ordini. Come rimpiangeremo voltagabbana e trasformisti. Qualcuno ha scritto con arguzia di uno dei passaggi dalla democrazia rappresentativa al delirio assembleare, plebiscitario ed emotivo della democrazia diretta, ma in realtà il passaggio cruciale è già avvenuto: secondo i sondaggi, favorevoli al taglio sono nove italiani su dieci, e i partiti si sono messi in riga (l’unico contrario è +Europa). Tutti d’accordo per essere in sintonia col fanatismo antipolitico. Ora si è costituito un piccolo, nobile e orgogliosamente suicida comitato del no, con Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, Daniele Viotti del Pd piemontese, il senatore Tommaso Nannicini e pochi altri. Sarà un’altra battaglia che varrà la pena perdere.