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 2020  febbraio 22 Sabato calendario

Elio Germano nei panni di Ligabue. Intervista

I capelli radi, la bocca semiaperta, storto, rachitico, i pantaloni di tre taglie più grandi. Elio Germano «è» letteralmente il pittore Antonio Ligabue nel film Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, in gara alla Berlinale.
Un grande assolo?
«No, il film non vuole esserlo. Mi auguro che si parli di quell’artista fragile e non della mia performance, di quell’uomo sbagliato, abbandonato dai genitori e allontanato da quella adottiva svizzera dopo una sua aggressione, che trova la sua strada di esistere senza compromessi per compiacere il pubblico, ed è una grande lezione. Perché è una storia potente e misteriosa, una dimensione estremizzata in cui in tanti si possono riconoscere. Ligabue è la parte più fragile di noi, che acquista un orgoglio e una sua dignità. Io sono più piccolo di quello che raccontiamo». 
Che posto avrebbe Ligabue nell’Italia di oggi?
«Sarebbe borderline, gestito con interventi di assistenza psichiatrica. La sua follia nasceva quando il fascismo ti sbatteva in manicomio perché non avevi lavoro, eri senza fissa dimora e dormivi nei fienili, non eri sposato…Oggi uno come lui non sarebbe nemmeno calcolato, tutto è schiacciato sul mercato, quello che non vende e non produce non conta nulla, anche gli anziani sono degli scarti, figuriamoci il matto».
Ma non era solo deriso...
«Sì, gli permettevano di andare in moto, ne aveva 12 e gliene funzionava una. C’era una sorta di accettazione e di riconoscimento sociale. Oggi gli artisti o vengono riconosciuti dall’alto oppure semplicemente non esistono».
Può spiegare meglio?
«Io a 14 anni anziché giocare a pallone mi iscrissi a una scuola di recitazione, facevo teatro e al quartiere mi schernivano, pensavano: sei gay, sei problematico, cos’hai? Dopo Shakespeare mi proposero Un medico in famiglia, che pensavo meno qualitativo e la gente invece voleva farsi le foto con me, mi mettevano i bambini in braccio. È una metafora che vale per tutti».
La trasformazione fisica?
«Il naso, le guance, le orecchie, il collo, le rughe... Quattro ore di trucco prostetico al giorno con la stessa équipe che ha avuto Favino per Buscetta, ma noi abbiamo cominciato prima. Ogni giorno rimodellavano, cominciavano da capo. Sono gli scultori di oggi. Era necessario, altrimenti dovevo fare la faccia del matto e una recitazione sopra le righe. Insistere sulla deformità sarebbe stato un errore, non avrei potuto interpretare Ligabue liberamente».
Ha visto lo sceneggiato tv sul pittore con Flavio Bucci, l’attore appena scomparso?
«Non ho guardato niente, mi sono affidato agli aneddoti di chi lo conobbe. Da collega, mi ferisce il fatto che Bucci lo si ricordi solo per Ligabue». 
I suoi reietti agli estremi, Leopardi e Ligabue?
«Da un artista tutto sulla parola a uno che si esprime in un dialetto spesso incomprensibile dove impasta lo svizzerotedesco e l’emiliano. Era la sua dimensione di autenticità. Ho anche frequentato un corso di pittura».
Come si è avvicinato a quei démoni su tela, alla violenza primordiale dei quadri di Ligabue?
«I suoi colori erano il sangue dei gatti, lo sterco dei piccioni, la bile degli animali morti. Agli uomini preferiva le bestie feroci e esotiche mai viste. Dipingeva le piante che vedeva sulle rive del Po che trasfigurava in giungla per esprimere le sue difficoltà, i castelli della sua infanzia, ciò che aveva dentro».
Ha due film alla Berlinale.
«Ho Favolacce dei fratelli D’Innocenzo. Mi auguro sia importante per il cinema italiano che meriterebbe di più ma è dimenticato dai media».