La Stampa, 21 febbraio 2020
Metti un giudice al computer
Gli studi sulla intelligenza artificiale hanno prodotto in Italia una letteratura imponente. L’applicazione degli algoritmi nella scienza e nella tecnica si espande ormai senza frontiere ed esperienze che un tempo potevano essere considerate avveniristiche e fantascientifiche – proprio dai romanzi di fantascienza di Asimov si sono tratte le regole basilari dell’impiego dei robot a vantaggio dell’uomo e non per fini malvagi – sono ora considerate ordinarie e irrinunciabili. Anche nel diritto, scienza tendenzialmente portata a riflettere problemi e modelli maturati nel corso di una tradizione plurimillenaria, l’intelligenza artificiale sortisce effetti sorprendenti. In che modo dunque il giurista può far uso accorto dell’intelligenza artificiale e come la società intera può reagire rispetto ai risultati raggiunti finora dalla sua applicazione?
A questi interrogativi cerca di dare risposta, con una prosa piana e accessibile, il nuovo libro di Richard Susskind, Online Courts and the Future of Justice (Oxford University Press). L’autore, già professore all’Università di Oxford, consulente del governo inglese e presidente della Society for Computer and Law, è noto ai giuristi italiani, che ne conoscono gli scritti sulla evoluzione del diritto (The Future of Law, 1996) e sulla professione forense (The end of lawyers?, 2008), temi ripresi ultimamente con riguardo alle sorti delle professioni intellettuali incalzate dalle nuove tecnologie (The Future of the Professions, 2015, con Daniel Susskind, e Tomorrow’s Lawyers, 2017).
Il discorso si dipana secondo un percorso segnato da alcuni snodi: la necessità di soddisfare la domanda di giustizia, le modalità moderne per soddisfare questa esigenza, i criteri con cui assicurare una giustizia «giusta» (cioè attenta alle condizioni sociali delle parti, trasparente, indipendente e imparziale), la soluzione dei casi in modo seriale attraverso l’impiego delle nuove tecnologie digitali. L’applicazione dell’intelligenza artificiale comporta l’accesso alla giustizia online, e quindi alle ODR (Online Dispute Resolution) e al «giudice-computer».
Dalle ricerche di Susskind emerge che l’esigenza di accedere alla giustizia nel mondo è largamente disattesa, come dimostrano i 100 milioni di casi pendenti dinanzi alle corti brasiliane e i 30 milioni di casi pendenti dinanzi alle corti indiane. Di qui la sfiducia dei cittadini nei sistemi tradizionali di amministrazione della giustizia, la diffusa situazione di conflitti irrisolti, l’angosciosa attesa di soluzioni che finiscono per essere così tardive da risultare inutili.
L’intento di Susskind non è quello che apre la Repubblica di Platone, cioè spiegare che cosa si debba intendere per giusto, ma piuttosto dimostrare che le tecnologie applicate alla amministrazione della giustizia sono destinate a promuovere piuttosto che non a negare la giustizia, intendendosi per tale ciò che è «secondo diritto» una giustizia (I) sostanziale e (II) processuale, (III) trasparente e (IV) distributiva, (V) proporzionale, (VI) effettiva e (VII) sostenibile.
Secondo i modelli ripetuti nei secoli, la giustizia è amministrata da uomini scelti ad hoc, con riti e in luoghi a essa deputati. L’impiego di tecnologie digitali semplifica il sistema: i riti possono essere trasformati in processi informatici, i luoghi sostituiti da contatti digitali.
Le «corti» non si debbono intendere solo come luoghi ma anche come «servizi». Se si cambia il modo tradizionale di vedere la giustizia ci possiamo avvicinare con maggior facilità ai processi di cambiamento che si stanno affermando attraverso la sostituzione dell’attività umana con l’attività artificiale. I servizi saranno sì seriali, ma se ne guadagnerà in rapidità e in estensione.
Ne è un esempio il servizio denominato Money Claim Online promosso dal ministro della Giustizia in Inghilterra e Galles nel 2002, che consente di recuperare crediti senza dover ricorrere alle County Courts. Non si tratta soltanto di un metodo veloce per realizzare le proprie pretese: questo sistema digitale persegue una finalità sociale di estrema rilevanza, perché consente a chi conosce il diritto di colmare il divario tra una pretesa giuridicamente fondata e la sua effettiva soddisfazione. Riducendo i costi, rendendo inutili difficoltose difese, il sistema è aperto a tutti – ricchi e poveri – perché mette a disposizione degli utenti «corti online» che risolvono così i problemi globali di una giustizia distributiva e proporzionata.
Le tecnologie digitali consentono di avviare tre diverse fasi di ammodernamento del sistema: la prima riguarda la soluzione delle controversie mediante la conciliazione e la mediazione, ovviamente online; questa fase non risolve i conflitti ma li previene (dispute avoidance); la seconda fase consiste nel contenere i conflitti, mediante il ricorso a giudici specializzati (dispute containement); la terza, mediante l’applicazione degli algoritmi con cui, immettendo nella macchina i dati di fatto e le decisioni aggregate per materie, si possono ottenere i risultati, cioè ciò che ci si potrebbe aspettare se il caso fosse sottoposto al giudice prevedendone le decisioni (dispute resolution).
È quest’ultimo l’aspetto più affascinante e al tempo stesso problematico della ricerca: possiamo accettare il ricorso al «computer judge» o dobbiamo continuare a confidare solo sul giudice «umano»? È la problematica della giustizia predittiva, nota dalla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti d’America per opera di Oliver Wendell Holmes, discussa con tanto acume dai giusrealisti americani, e ora tornata di attualità con ben altri argomenti e altri risultati per effetto dell’applicazione degli algoritmi.
Susskind si fa carico delle questioni aperte dalla giustizia predittiva digitale: poiché i dati immessi nella macchina riflettono il passato, i risultati non fanno che pietrificare il diritto impedendo qualsiasi soluzione creativa e con ciò qualsiasi evoluzione che segua a un nuovo modo di ragionare e risolvere i problemi. A questi limiti si associano poi considerazioni diffuse riflesse dai sentimenti morali: la «giustizia meccanica» corrisponde al nostro senso morale di giustizia?
La risposta di Susskind è semplice: i sette caratteri della giustizia sopra evidenziati non vengono meno se si passa dalle corti «umane" alle corti digitali. Piuttosto, il problema non sta nelle modalità di soluzione dei casi, quanto nel fatto che, in una prospettiva attenta agli aspetti sociali, non tutti gli individui conoscono i loro diritti e quindi non sono in grado di poterli soddisfare e di farli rispettare. Di qui l’esigenza di risolvere i problemi a livello sociale in un contesto internazionale: giudici di diversi Paesi possono essere assegnati alla soluzione di casi sorti in aree remote e mettersi a disposizione di parti che non sarebbero in grado, per la loro residenza e collocazione geografica, o per le loro condizioni economiche, di attingere a un giudice tradizionale.
Le soluzioni che Susskind propone sono impegnative, ma il suo libro ci invita a raccogliere la sfida, che, ben s’intende, non ha ambizioni universali: si tratta più semplicemente di individuare il modo per risolvere i casi civili di modesto valore in un contesto globale con «corti online».