Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2020
La carne coltivata salverà la Terra
Quando, nell’estate del 2013, a Londra, l’ingegnere dei tessuti dell’Università di Maastricht Marc Post presenta al mondo il primo hamburger di carne di manzo coltivata in vitro, i commenti scontati si sprecano. L’hamburger, subito ribattezzato Frankenburger, viene per lo più accolto come una bizzarrìa, un divertissement destinato a restare tale. Solo i più addentro alla questione del cibo, e di come alimentare i dieci miliardi di esseri umani che presto popoleranno il pianeta salutano quella poltiglia come il primo, incoraggiante segnale di un futuro tutto da scrivere. Oggi la carne coltivata è in cima a tutte le liste di agenzie quali la Fao come una delle pochissime soluzioni che potrebbero salvare il pianeta. Il perché è presto detto: per produrla occorre un quantitativo di risorse quali acqua, terra, elettricità e altro che, in media, è del 90% più basso rispetto a quello necessario per allevare un animale da carne, e lo stesso vale per le emissioni. In più nella carne coltivata non vanno aggiunti farmaci né sostanze che di solito abbondano in quella classica, a tutto vantaggio della salute. Infine, nessun animale viene maltrattato e la biodiversità ha modo di riprendersi. Questo, in sintesi, spiega perché, a oggi, tra Europa e Stati Uniti, passando per Israele e Giappone, i nomi che si sono già fatti notare siano almeno una trentina, con molte possibili varianti.
La carne di Marc Post era costituita solo da cellule muscolari, e questo la rendeva un po’ asciutta al palato; dopo di lui (che nel frattempo ha fondato la sua start up, Mosa Meat), l’incubatore IndieBio di San Francisco ha sostenuto la crescita del suo principale competitor, la Memphis Meat, che ottenuto così carne più palatabile, anche di pollo e di anatra. Da lì viene anche Just, in origine dedicata solo ai sostituti vegani, ma poi riconvertita alla carne coltivata, a cominciare dal patè di fegato, che nel mondo ha un mercato da tre miliardi di dollari. Nel frattempo Israele si è inserita nella corsa attraverso una fondazione e un suo incubatore, The Kitchen, che sostiene diverse startup quali Future Meat e Aleph Farms, che sono già riuscite a ottenere la carne di pollo, ma anche la prima bistecca di manzo al mondo, cioè la prima carne coltivata in fibre.
Anche il pesce attraversa un momento di profondissima crisi: i mari sono depauperati e inquinati da mercurio e microplastiche e le acquacolture, da cui proviene ormai più del 50% del pesce mangiato nel mondo, sono una delle più importanti fonti di inquinamento delle acque, e producono pesci pieni di antibiotici e parassiti. Per questo sempre c’è chi sta lavorando sulla coltivazione del pesce, come la Finless Food sempre di Indie Bio e la Shiok di Singapore, che hanno già realizzato carne di tilapia, carpa, tonno e gamberetti.
Gli ostacoli principali che devono ora affrontare queste realtà è quello normativo: nessun paese al mondo ha ancora deciso come regolare i controlli, come definire le caratteristiche della produzione, che tipo di etichetta imporre, questioni non da poco. Il caso esemplare è quello degli Stati Uniti: Fda e Dipartimento dell’agricoltura discutono da mesi su chi abbia le giuste competenze, in realtà distribuite su entrambe le agenzie. Con ogni probabilità si arriverà a istituire enti appositi, ma ci vorrà tempo. A questo si aggiunge il costo: l’hamburger di Post costava 250.000 dollari, oggi siamo a 50, in media, ma la strada per gli scaffali dei supermercati è ancora lunga.
Di questa vacatio ha approfittato il mercato dei surrogati vegetali, ormai presenti anche in Italia, che sta conoscendo in vero e proprio boom. Si tratta, in realtà, di alimenti ultraprocessati, costituiti solo da materie prime industriali. La base è quasi sempre una farina di soia o piselli, addizionata di numerosi additivi di vario tipo per renderle il più possibile simili alla carne animale. Nel caso di Impossible Burger, è presente un elemento sul quale molti nutrizionisti hanno più di un dubbio: la leghemoglobina, la versione vegetale della proteina che trasporta il ferro nel sangue, sulla cui sicurezza c’è più di un dubbio. In più, dal punto di vista dell’impronta, ut8ilizzando legumi da agricoltura industriale e con complesse lavorazioni, per l’Università di Oxford sono situabili «da qualche parte tra il manzo e il pollo di allevamento»: non un significativo passo in avanti, dunque. Qualcosa del genere vale anche per i numerosi surrogati vegetali del pesce, che ormai riproducono, sfruttando spesso anche le alghe, praticamente tutti i tipi di pesce più diffusi, nonché le salse per condirli.
Infine, ancora embrionale ma interessante è la cosiddetta air meat, la carne d’aria, sperimentata per la prima volta dalla Nasa nel 1967. L’idea è far fermentare batteri che si cibano di idrogeno e CO2 in un ambiente che contiene aminoacidi e sali. Il risultato, sui cui stanno lavorando la finlandese Solar Food e la californiana Aer Protein, è una farina proteica ideale per le missioni spaziali. E forse anche per i supermercati terrestri.
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