Avvenire, 20 febbraio 2020
Coronavirus, il Giappone è nei guai
Yokohama
Il Kitasato (“Villaggio del Nord”) è uno dei circa 9mila ospedali del Giappone. Tra quelli di Tokyo, circa 700, è uno dei più prestigiosi. Ci si cura anche il premier Shinzo Abe, da anni affetto da una malattia infiammatoria dell’intestino, non grave ma molto fastidiosa. È un ospedale modello, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione.
In Giappone non esiste il cosiddetto medico di famiglia: quando si sta male si va in ospedale, con o senza appuntamento, si aspetta un po’, si fanno le analisi di rito e gli accertamenti diagnostici che il medico ritiene necessari (subito, in giornata, non dopo mesi...) e prima di passare alla cassa, dove si paga un equo ticket, si ricevono anche i medicinali. In una bustina, nelle dosi strettamente necessarie. Niente sprechi, ma anche poca trasparenza: ai pazienti in genere non viene spiegato granché. Si fidano, diciamo, dei medici. Vecchio retaggio confuciano.
In questi giorni però le cose non funzionano così bene. Al pronto soccorso e al reparto malattie infettive (ma anche in altri, perché molti pazienti, specie gli anziani, si presentano un po’ dappertutto, e pretendono di essere comunque accuditi) c’è la fila. Sono persone che magari hanno un semplice raffreddore, la febbre, un po’ di tosse, sintomi che in altri momenti – data anche la stagione – non provocherebbero certo una visita in ospedale, ma che di questi tempi creano paura, ansia, preoccupazione. Tutte cose che ai giapponesi, popolo tranquillo e amante della routine, non piacciono. E non piace, in questi giorni, rendersi conto che la risposta del Paese, delle istituzioni, delle strutture sanitarie, non sia all’altezza della terza economia del mondo. Sulla home page del ministero della Salute, per carità, ci sono dettagliatissime istruzioni (solo in parte tradotte in inglese...). La più importante delle quali è quella di aspettare almeno tre giorni di febbre sopra i 37.5 gradi, prima di contattare, al telefono, un call center. Sarà il call center ad indicare il centro dover recarsi per il controllo specifico. Ma non tutti i cittadini frequentano la Rete, soprattutto non lo fanno gli anziani, che in Giappone sono tanti, e saranno sempre di più. In genere stanno bene, l’aspettativa di vita è tra le più alte del pianeta, ma quando stanno male non cercano consigli su internet e non vanno in farmacia a comprare un farmaco, magari senza ricetta. Vanno in ospedale. «Sono qui da 5 ore – racconta Mitsuko Kobayashi, 81 anni, che si è fatta accompagnare dalla figlia – prima mi hanno detto di aspettare, poi mi hanno fatto un prelievo e alla fine mi hanno detto di stare tranquilla, di tornare a casa e stare al caldo. Ho chiesto: ma ho il virus? Non lo sappiamo, non possiamo fare il test a tutti, stia tranquilla e vada a casa, mi hanno risposto. Ma vi pare?».
In tutto il Giappone, al momento, si possono fare circa 200 tamponi specifici per il coronavirus al giorno. E solo a Tokyo. A Hong Kong pare ne possano fare fino a 3mila. A tutti coloro, e sono sempre di più, che si presentano con sintomi compatibili con il virus si fa solo l’emocromo e la PCR, un esame di routine che segnala un’infezione in atto, ma non ti dice quale. È uno dei motivi per cui le autorità ci hanno messo così tanto tempo per testare i passeggeri della Diamond Princess, la nave “lazzaretto” che nel frattempo è diventata una vera e propria incubatrice del virus. E non c’è da stupirsene, se è vero anche la metà di quello che ha scoperto nelle poche ore che è riuscito a restare a bordo prima di farsi “scoprire”, il medico immunologo Kentaro Iwata, di Kobe (ospedale dove proprio ieri hanno rubato, evento inaudito, per il Giappone, ben 6mila mascherine protettive, che sul mercato nero oramai si vendono a oltre 100 euro) e che ha immediatamente denunciato su you tube.
Nonostante l’apparente serenità del ministro della sanità, Katsunobu Kato, che nel corso delle sue oramai quotidiane conferenze stampa continua a minimizzare la situazione e ad invitare la popolazione a proteggersi in maniera ordinata ed efficace, ma senza lasciarsi prendere dal panico, l’impressione è che il Giappone, il cui governo è stato colto di sorpresa e proprio mentre stava cercando di approvare un nuovo pacchetto di stimolo per l’economia, crollata del 6.3% dell’ultimo trimestre del 2019 (dunque prima che apparisse il virus...) abbia e stia ancora pericolosamente sottovalutando la questione. E non tanto o non solo per la quanto meno bizzarra gestione della Diamond Princess (ci sono gia alcuni avvocati pronti a chiedere i danni per il contagio avvenuto a bordo) quanto per il fatto che poco o niente si sta facendo per controllare il virus. A parte gli oltre 400 passeggeri sbarcati dalla nave, sottoposti solo ad un primo, non infallibile, controllo e ai quali è stato chiesto dalle autorità solo di rendersi reperibili e di comunicare eventuali nuovi sintomi, ci sono almeno un’altra settantina di contagiati asintomatici che sono “liberi” di circolare (anche se molti hanno dichiarato di essersi imposti una quarantena volontaria). E per nove di queste persone non è stato trovato alcun legame, alcun “contatto”, geografico o personale, che possa giustificare il contagio. E non è questione da poco. Ma qualcosa si muove. «Stamane mi hanno chiamato dalla società per cui lavoro – ci dice Manabu, dirigente di una grande azienda di import export – mi hanno detto di lavorare da casa. Se l’ha fatto la mia azienda, che di solito ci impone straordinari infernali, significa che hanno ricevuto ordini dall’alto».
Come già successo in Corea del Sud, dove il governo ha suggerito la chiusura delle scuole e regole ferree di comportamento “sociale”, anche il Giappone potrebbe presto farlo. Perché se non si prendono, e in fretta, le misure al virus, in gioco ci sono le Olimpiadi. E anche questo non è poco.