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 2020  febbraio 19 Mercoledì calendario

Intervista a Bavid Brunet, il reporter che ha raccontato i tre impeachment

È raro che la foto di un fotografo al lavoro faccia notizia, ma questo è un caso particolare. C’era qualcosa che, sin dal primo giorno delle audizioni per l’impeachment di Donald Trump, stonava in mezzo alla selva di macchine digitali da venti scatti al secondo, smartphone e videocamere puntate sui testimoni. Nelle mani di un signore con occhiali e capelli bianchi, troneggiava, ingombrante nella sua elegante vetustà, un apparecchio vintage in legno di grande formato, capace al più di uno scatto ogni trenta secondi: un reperto dal nome poetico – Aero-Liberator – fatto a mano da un artigiano della Florida.
Gli esperti hanno subito individuato il viaggiatore giunto in Campidoglio dal passato: David Burnett, uno dei più noti fotogiornalisti al mondo, leggenda schiva con cinquant’anni di carriera, iniziata in Vietnam, balzata agli onori per la copertura della Rivoluzione di Khomeini e proseguita tra attualità – guerre, rivoluzioni e Olimpiadi – e lavori intimi, tipo quello raccolto in un libro su Bob Marley. «È stato ovunque, ma solo per un’ora», è scritto sul suo sito. Spesso alla ricerca di un punto di vista spiazzante, come quando, al decollo dell’Apollo 11, invece del razzo, riprese i volti degli spettatori. Nato nel 1946 a Salt Lake City, due volte presidente del World Press Photo, tra i fondatori dell’agenzia Contact Press Images (la stessa di Annie Leibovitz), Burnett detiene un record legato alla passione politica: quello di Trump è il suo terzo impeachment, avendo già seguito il Watergate di Nixon nel 1973 e la messa in stato d’accusa di Clinton nel 1998-99.
La presenza di Burnett e della sua scatola non è passata inosservata. Dopo pochi minuti l’immagine girava in tv, tra fotoamatori, blog, sul sito del New Yorker.
Si è accorto di essere stato ripreso?
«Macché. Appena entri, dimentichi dove sei e prima che le testimonianze inizino, le telecamere riprendono pigramente la stanza. Ed eccomi lì in mezzo, parlavamo di quali foto speravamo di fare. Nel pomeriggio uno mi ha detto di avermi visto in tv.
La sera erano diventati una valanga».
Perché usare una Aero-Liberator nel 2020?
«Gli svantaggi non mancano. Il più ovvio è il tempo necessario per caricare la pellicola, inquadrare e mettere a fuoco. È vero che dispongo soltanto di uno scatto al minuto, ma il tempo che ho per concentrarmi su ogni immagine, porta a una foto che avrei perduto con una macchina veloce. Gli apparecchi recenti hanno sottratto all’uomo azioni che prima appartenevano a lui. Lavorare con una Liberator significa invece restare al posto di comando per ogni decisione».
Ha dichiarato che fotografare un impeachment è fotografare un’idea più che un’entità materiale...
«È una delle situazioni più difficili.
Ora ci sono tante fasi a porte chiuse e sei costretto a cercare una rappresentazione simbolica dell’atto tra le testimonianze meno formali dell’inizio o alla fine, quando si vota per rimuovere il presidente. Così il lavoro diventa una serie di decisioni per valutare se quello che passa davanti ha il potenziale per rappresentare l’impeachment. Non c’è garanzia che ciò che vedrai somigli a quanto immagini, devi essere pronto a cogliere il momento raro in cui una fotografia può per strani motivi palesarsi davanti a te».
Qual è la più grande differenza fra i tre impeachment?
«Al tempo del Watergate, la sensazione era di un accordo bipartisan piuttosto forte.
Repubblicani e democratici erano interessati a capire che cosa avesse fatto Nixon, sospettando che l’amministrazione avesse superato i limiti. Con Clinton e con Trump, i due schieramenti non sono allineati e cercano di ostacolare l’altro, non di fare il bene del Paese. La nostra politica è molto divisa e non c’è miglior luogo di queste audizioni per accorgersi che le cose non potranno che peggiorare».
Sono cinquant’anni che entra nella Casa Bianca. Cosa l’attrae ancora?
«Passare attraverso la security della Casa Bianca per accedere alla West Wing mi fa sentire piccolo; è un’emozione che non invecchia.
Riconosco che il mio accesso lì è un privilegio. E ritengo che dobbiamo fare il nostro lavoro nel modo più serio possibile. Ora più che mai, il Paese ha bisogno di professionisti onesti. La stampa non è nemica del popolo, ma dobbiamo saper fare il nostro lavoro: adoperare questa finestra per raccontare al mondo cosa succede».
Qual è stata l’esperienza più importante con i presidenti?
«Seguire le dimissioni di Nixon perché ha voluto dire, per me e altri colleghi, poter partecipare per un istante a una fase turbolenta della Storia. Poi l’esperienza con il presidente Ford, il primo a ritrovarsi lì senza aver fatto la campagna: passare anche solo qualche minuto con lui mi ha aperto gli occhi».
È noto per complicarsi il lavoro.
Perché?
«Pochi fotografi si sforzano di andare oltre l’ovvio ed è proprio la ricerca dell’insolito che porta a scatti memorabili. Resta in guardia e aspetta: quello che vedrai ti sorprenderà».
Al Senato ha ritrovato Ken Starr, accusatore di Clinton e ora difensore di Trump. È un po’ come lavorare in un circo?
«È uno di quei personaggi di Washington che di tanto in tanto ricompaiono.
Come Trump, George W. Bush e Clinton, ha la mia età e ci deve essere qualcosa in quelli nati nel 1946. Per ragioni diverse ci ritroviamo vicini in momenti molto seri per la vita della nazione».
Che cosa può offrirci il giornalismo?
«Anche se passiamo tanto tempo online, a non cambiare è l’abilità del fotogiornalista nel catturare e condividere un momento del tempo nella vita e nel mondo che chiunque, anche se non parla la stessa lingua, può capire. La fotografia resta l’unica forma di comunicazione universale».