la Repubblica, 19 febbraio 2020
La vedova che disse “Mafiosi inginocchiatevi” tradita anche dal fratello
«Io vi perdono, ma inginocchiatevi», disse Rosaria Costa davanti alla bara del marito Vito Schifani, uno dei poliziotti uccisi con il giudice Falcone. Nel suo quartiere, l’Arenella, in molti non gradirono: «I mafiosi non si inginocchiano». E anche il fratello di Rosaria, Giuseppe, prese le distanze. Nel quartiere i vecchi apprezzarono. E oggi sappiamo perché: Giuseppe Costa era a disposizione del clan dell’Arenella, è stato arrestato ieri mattina dalla Dia di Palermo assieme ad altri cinque boss. E pure a lui, ufficialmente solo un muratore incensurato di 53 anni sposato con figli, viene contestata l’accusa di associazione mafiosa: raccoglieva i soldi del pizzo, gestiva la cassa della famiglia, si occupava dell’assistenza ai parenti dei carcerati. Tutta gente di rango: l’ultimo capomafia che Costa serviva si chiama Gaetano Scotto, l’uomo di tanti misteri palermitani scarcerato nel 2016, negli anni Novanta sarebbe stato al centro di rapporti fra Cosa nostra e ambienti deviati dei servizi segreti. È questo il clan dell’Arenella che aveva vestito addosso a Giuseppe Costa l’abito di “mafioso riservato”, come lo chiamano i magistrati dell’antimafia. Il trojan piazzato nel telefonino di Scotto ha registrato ogni parola.In due anni di intercettazioni, però, mai nessun riferimento alla strage di Capaci, alla sorella, al nipote diventato ufficiale della Guardia di finanza. Come se quel lutto terribile che ha attraversato una famiglia e un intero Paese non fosse mai esistito. Giuseppe Costa aveva già preso le distanze in modo plateale dalla sorella diventata in quel maggio terribile del 1992 il simbolo della Sicilia che non si rassegnava alla mafia.Racconta il collaboratore di giustizia Maurizio Spataro di avere chiesto al suo capo, il boss Giovanni Bonanno, se ci si poteva fidare del fratello di Rosaria Costa. Era metà anni Duemila. Bonanno spiegò che Costa si era «comportato bene, perché aveva preso le distanze dalla sorella». E tanto era bastato. Costa avrebbe organizzato incontri riservati a casa sua, sarebbe stato messaggero fidato: Spataro racconta che avrebbe anche custodito delle armi di alcuni uomini d’onore.Da quei giorni difficili del 1992, Rosaria Costa non vive più a Palermo. Una volta, in un’intervista, le chiesero: «Tornerebbe a Palermo?». Rispose: «Manco morta. A Palermo sento odore di mafia». E aggiunse: «Forse da sola ci starei, per sfidare quei maledetti che condizionano pure il respiro dei nostri parenti». Parole che entravano ancora una volta nelle viscere dell’Arenella, dove i mafiosi non si sono mai rassegnati agli arresti e ai processi. Il quartiere che sorge nella zona dei Cantieri navali continua ad essere la cassaforte di tanti segreti: il capomafia di Giuseppe Costa, quel Gaetano Scotto che dopo la scarcerazione saliva sulla barca del santo protettore della borgata, è indagato oggi anche per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, trucidati il 5 agosto 1989. Per la procura generale di Palermo, Agostino, ufficialmente solo un agente della squadra volanti del commissariato San Lorenzo, svolgeva in realtà un’attività sotto copertura a caccia di latitanti. «Lo vedevo all’Arenella», ha raccontato il pentito Vito Galatolo. Ma qualcuno lo tradì, qualcuno che probabilmente faceva il doppio gioco in quel quartiere dove le storie si intrecciavano in modo vorticoso. Dove un fratello ha rinnegato la sorella. Per la mafia, qui, un padre padrino ha anche fatto uccidere la figlia sospettata di aver tradito il marito: Lia Pipitone fu assassinata nel 1983, aveva 25 anni. All’Arenella, non si riesce ancora a mettere una targa che ricordi Lia e tutte le donne che hanno sognato un quartiere libero dalla mafia.