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 2020  febbraio 19 Mercoledì calendario

Intervista a John Shipton, il papà di Julian Assange

“Un paio di anni fa ci siamo promessi che quando Julian fosse stato rilasciato saremmo andati a fare insieme il cammino di Santiago. Lui ha deciso di iniziare senza di me e ora in cella cammina su e giù, una tappa per volta”. John Shipton è il padre di Julian Assange. Lo incontriamo alla conferenza stampa organizzata a Londra dalla Foreign Press Association per la stampa internazionale: lunedì, alla Woolwich Crown Court, inizia l’udienza sulla richiesta di estradizione di Assange negli Stati Uniti. Rischia 175 anni di carcere per 18 capi d’imputazione, fra i quali la complicità con Chelsea Manning nella sottrazione illegale e pubblicazione di materiale classificato. Il primo caso di applicazione a un giornalista dell’Espionage Act, legge Usa del 1917, durante la Prima guerra mondiale, per punire chi rivelava segreti militari al nemico. “Julian sarà in aula e con lui tutta la nostra famiglia, gli altri fratelli, i suoi figli. Ha bisogno di tutto il nostro supporto”, dice Shipton. È un uomo di straordinaria mitezza, ma instancabile nel girare il mondo per supportare il figlio, detenuto nel carcere di Belmarsh dallo scorso aprile dopo quasi otto anni di asilo politico nell’ambasciata londinese dell’Ecuador.
Quando ha visto suo figlio l’ultima volta e come sta?
L’ho visitato in carcere la scorsa settimana. Sta come ha scritto nel suo rapporto ufficiale il relatore speciale dell’Onu sulla tortura, Niels Melzer: ha subito per nove anni una costante e crescente tortura psicologica, sotto sorveglianza costante, senza mai poter lasciare l’ambasciata e sottoposto ad attacchi da ogni parte. È molto magro, ha perso 15 chili. Ma da qualche giorno va meglio. I suoi compagni di cella hanno fatto tre raccolte di firme perché uscisse dall’isolamento. La gente comune in Australia ha mandato centinaia di email di sostegno alla direzione del carcere. Voi giornalisti state facendo un fondamentale lavoro di informazione. Tutto questo porta dei risultati: ora finalmente non è più da solo.
Parlate del processo?
No, cerchiamo di non pensarci. Prendiamo ogni giorno come viene, altrimenti rischiamo di deprimerci: l’estradizione equivarrebbe a una condanna a morte… Invecchiando abbiamo sviluppato un certo gusto per le chiacchiere: parliamo delle donne della nostra vita, dei nostri figli, degli amici e poi di cose pratiche.
Cosa si aspetta che succeda lunedì?
Sarà il giorno dell’accusa, quindi ci aspettiamo una giornata dura, piena di menzogne, false accuse e calunnie. Ma ci siamo già passati.
Ha un messaggio per il governo britannico?
Sì, la richiesta di estradizione deve essere immediatamente respinta. Se questo non accadrà andrò a prendere Julian in prigione, perché possa difendersi a casa, sorretto dalla famiglia. Ora voglio che il mondo lo veda per ciò che è davvero: un uomo che, a prezzo di un enorme sacrificio, ha dato un grande contributo alla comprensione del mondo contemporaneo. Ci ha aiutato a prendere decisioni sulla base di informazioni reali su cosa fanno davvero i nostri governi, ha portato allo scoperto crimini tremendi, omicidi di massa, fiumi di sangue. E questo è un dono immenso, poter sapere e chiedere ai nostri governi di cambiare politica e diventare umani.
Per questo lei gira l’Europa a perorare la causa di Julian?
Sì, questo mese sarò in Svizzera, poi in Austria. C’è un crescente supporto in Europa. Questa è una battaglia che non riguarda solo Julian. Gli Stati Uniti hanno centinaia di persone che lavorano a questo caso, milioni di dollari investiti per ottenere la sua estradizione. È la misura dell’intimidazione che gli Stati Uniti possono imporre sui giornalisti di tutto il mondo. Riguarda tutti voi, perché nessuno di voi o dei vostri giornali potrà mai mettere in campo altrettante risorse.
Se dovesse vincere la causa come vede il suo futuro?
Sarebbe bello se ottenesse una docenza. In fondo sa un sacco di cose… Ma io vorrei solo che tornasse a Melbourne, a casa. Abbiamo dei bellissimi alberi di ciliegio. Vorrei solo passeggiare, sedermi sotto gli alberi, parlare.