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 2020  febbraio 18 Martedì calendario

Un libro sul rapporto tra arte e alcol

Astenersi astemi e/o timorati: papa Paolo III amava il vino ai pasti, ma ancor di più per tamponarsi “gli occhi ogni mattina et anco per bagnarsi le parti virili”. Nell’antica Roma, patria della giurisprudenza, esisteva invece “lo jus osculi, cioè il diritto del marito di baciare la moglie per controllare che l’alito non sapesse d’alcol: pena il divorzio, se non la morte”. Qualche secolo dopo, Brunelleschi si fece costruire un chioschetto sull’impalcatura della costruenda cupola del Duomo di Firenze: non poteva permettersi che gli operai interrompessero il lavoro per scendere a bere un goccetto.
Che sbronza, l’arte: la storia, il costume e finanche la religione sono imbevuti di etanolo; ce lo ricordano Massimo Scardigli e Roberto Sbaratto in Sorsi. Come farsi una cultura alcolica (Interlinea), un frizzantino pamphlet nato da uno spettacolo teatrale: i due autori – uno storico e un attore e musicista – ci guidano in un breve excursus tra le epoche e le muse, ciondolando tra tragedie greche e fumetti, musica e letteratura, in compagnia di ubriaconi e astemi, così stigmatizzati da Bulgakov: “Qualcosa di poco di buono si nasconde negli uomini che evitano il vino… O sono gravemente ammalati, oppure odiano in segreto il prossimo”. Mefistofele ne sa una più del diavolo se è vero che i grandi cattivoni – vedi Hitler e Mussolini – erano astemi, come pure il principe del Terrore, Robespierre, che mandò al patibolo Luigi XVI. Ma il re era il re: si presentò alla ghigliottina brillo.
Mentre Hemingway ci rammenta che il whisky va degustato con ghiaccio, Melville ci mette in guardia sulle cattive compagnie alcoliche: i colleghi. Sostiene Montaigne, invece, che “per essere buoni bevitori non bisogna avere un palato troppo delicato”.
“Bere, assieme alla paura dell’avvenire, è un segno distintivo dell’uomo” (Brillat-Savarin): la civiltà è nata con la coltivazione dell’uva e infatti, “ovunque arrivarono, le legioni romane piantarono viti”. Le prime furono innestate 8.000 anni fa, tra Caucaso e Turchia, proprio ai piedi dell’Ararat su cui si arenò Noè con l’arca: messo piede a terra, il patriarca si concesse subito un brindisi. Per i babilonesi, viceversa, non fu un uomo a scoprire la malia dell’alcol, ma una donna che stava tentando il suicidio: diventò un’alcolizzata, ma si salvò. Pare. Gli Egizi erano maniaci delle etichette (provenienza, anno, proprietario, cantiniere…); i greci avevano il culto di Eneo – donde l’enologia – e le loro Iliadi e Odissee traboccavano di sbevazzoni. Ad Atene e dintorni il vino era quasi un “farmaco”, spacciato senza ricetta nei simposi e nei riti orgiastici, alias vinalie e baccanali per i romani. Durante i festini – spiffera il pettegolo Giovenale – “le donne fra sesso e bocca non facevano nessuna differenza”. Indispensabile perciò, in quei party da basso impero, era l’advorsitor, “lo schiavo rimorchiatore, incaricato di riportare il padrone a casa dopo la sbornia”. Nella sola Pompei si contavano 200 osterie e il raffinato Catullo, quando non cantava l’amore, discettava di sbronze: “E tu vai dove ti pare,/ acqua, peste del vino”! Gli faceva eco il collega Quinto Orazio Flacco, per brevità chiamato Orazio: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo”.
Il poeta, per definizione del maestro Baudelaire, ha un “cuore sitibondo”, arrivando a contagiare, con la sua smania etilica, gli stessi personaggi di finzione, come il Gulliver di Swift, il Capitan Fracassa di Gautier, il Gatsby di Fitzgerald, Wolfe e Marlowe, Maigret e Montalbano. Le opere, i versi, i peana per l’alcol e altre ciucche – seguono lussuria e sonno – imperlano tutta la storia della letteratura: da Lorenzo il Magnifico a Neruda, da Fo a Engels, da De Amicis a Manzoni, da Goldoni a Wilde, che riuscì a sfornare uno dei suoi muriatici aforismi persino in fin di vita, con un bicchiere di champagne in mano: “Ahimè, sto morendo al di sopra delle mie possibilità”.