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 2020  febbraio 17 Lunedì calendario

La carne e le emissioni di gas serra

Il danno ambientale al Pianeta è talmente grave da minacciare l’intero ecosistema e la salute delle persone, se non si intraprendono azioni urgenti». Questo è soltanto l’ultimo allarme lanciato dall’Onu nel 2019 con il sesto Global Environment Outlook. Colpa degli attuali modelli di produzione e consumo, che non sono più sostenibili: gli effetti li stiamo vedendo e toccando con mano. 

Qualcosa si sta muovendo nel settore energetico, nei micro tentativi di economia circolare, in una maggiore consapevolezza nei consumi. Ma non sono mosse incisive, perché il cambio di paradigma prevede la cancellazione o riduzione di interi settori, che se non accompagnate da una progettualità di transizione che garantisca l’occupazione, restano solo delle dichiarazioni d’intenti. Proviamo a focalizzarci sugli allevamenti intensivi, responsabili del 15% delle emissioni di gas serra riconducibili all’attività umana: anidride carbonica, metano, protossido di azoto. Vanno ridotti, ma di quanto? E qual è il punto di sostenibilità considerando anche l’aumento della popolazione mondiale? 

L’impatto della carne bovina

Secondo la Fao l’allevamento è l’attività che usa più terra in assoluto: quasi l’80 per cento di tutti i terreni agricoli sono utilizzati nelle coltivazioni per la produzione di mangimi e a pascoli. I professori americani Michael Clark (Università del Minnesota) e David Tilman (Università della California) nel 2017 hanno calcolato quanto suolo è necessario usare per produrre un grammo di proteina animale: per bovini e ovini sono necessari 1,02 metri quadrati, per il maiale 0,13 e per il pollo 0,08 metri quadrati. Per quel che riguarda il consumo di risorse idriche lo studio più approfondito lo ha fatto Water Footprint: un chilo di carne bovina necessita di 15.415 litri d’acqua, che diventano 4.325 per il pollame, 4.055 per i legumi, e 322 per un chilo di verdura. Inoltre i terreni agricoli utilizzati per produrre mangimi stanno eliminando foreste e aree incontaminate, e di conseguenza la biodiversità. Solo la coltivazione di soia ad uso animale è passata dai 175 milioni di tonnellate del 2000 ai 350 di oggi.

Produzione ed efficienza energetica

Nel 2016 i ricercatori della National Academy Of Science statunitense hanno calcolato l’efficienza energetica della produzione della carne: l’1,9% delle calorie dei mangimi si converte in prodotto animale. Ogni 77 proteine contenute nei mangimi che potrebbero essere usate per l’alimentazione umana, solo 58 finiscono nella bistecca. C’è poi lo spreco. Secondo i dati della Fao, oltre il 20 per cento di tutta la produzione annuale viene persa lungo l’intera filiera, a partire dall’azienda agricola, durante il processo di trasformazione e lavorazione, nei negozi, i ristoranti e in ambito domestico. In pratica buttiamo via l’equivalente di quello che oggi mediamente consumano un miliardo e mezzo di persone.

Dove si consuma più carne 

Con il miglioramento delle disponibilità economiche, negli ultimi 50 anni, il consumo di carne (manzo, pollo, maiale) si è impennato. Negli anni 60 il consumo medio a persona in Cina era inferiore a 5 chili all’anno, oggi è salito a 60. In Brasile, invece è raddoppiato dal 1990 a oggi. Fa eccezione l’India che è un Paese in crescita economica e demografica ma dove la mucca rimane sacra: meno di 4 chili all’anno per abitante (ma mangiano più pollo). 

In Africa centrale e Sudest asiatico invece non si superano i 10 kg l’anno. I primi in classifica sono Australia, Stati Uniti, Argentina e Nuova Zelanda: oltre i 100 chili all’anno per abitante (neonati compresi). In Europa, dove il consumo medio è di 90 chili, l’Italia è il Paese dove se ne mangia meno: 79 kg. Sta di fatto che nel mondo dal 1960 al 2017 la produzione è aumentata del 371%, mentre nello stesso periodo la popolazione mondiale è cresciuta del 149% (da 3 miliardi a 7,515). 

Gli effetti sulla salute

Le carni bianche non hanno controindicazioni provate, mentre un’analisi dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro basata su 800 studi epidemiologici ha definito le carni rosse come potenzialmente cancerogene (gruppo 2A) e quelle trasformate (affumicate, salate, stagionate) come certamente cancerogene (gruppo 1). 

L’associazione è stata osservata principalmente per il carcinoma del colon-retto, pancreas, stomaco e prostata, oltre alle malattie cardiovascolari e diabete. In sostanza mangiare drasticamente meno carne rossa protegge la nostra salute e quella del pianeta. Secondo gli esperti si può dare a tutti le proteine che servono aumentando del 20% la produzione di legumi, e l’equivalente valore calorico coltivando più grano, riso, patate, che richiedono anche un minor consumo di risorse (dal 15 al 50%). 

In Ue impiega 7 milioni di persone 

Il mondo però sta andando da un’altra parte: secondo l’Onu senza correttivi entro il 2050 il consumo di carne bovina aumenterà del 69%. Parallelamente i forum mondiali si danno degli obiettivi: entro il 2050 bisogna ridurne il consumo del 50%. Ma per invertire la tendenza bisogna fare i conti con l’industria della carne e la sua lunghissima filiera: allevamenti, macelli, trasformazione, confezionamento, trasporti, grande distribuzione, produttori di mangimi, veterinari, farmaci. 

L’occupazione che ognuno di questi settori garantisce è enorme, ed è impossibile trovare un numero esatto. Esistono solo delle stime fornite da Ismea su dati Eurostat: in Italia gli addetti al comparto bovino sono 257.000, con un mercato da 14 miliardi (Assocarni). Nell’Unione europea sono 6,9 milioni di occupati. I dati includono anche gli addetti alla lavorazione di carni miste (quindi non solo quelle rosse), ma non contemplano gli occupati del trasporto, grande distribuzione, mangimistica, veterinari, industria dei macchinari e del pellame. A livello globale non esiste nemmeno una stima, se non il valore di mercato: 740 miliardi di dollari. 

Lavoro e produzione

Se per il bene di tutti noi occorre dimezzare gli allevamenti intensivi di bovini, la domanda è: come mantenere l’enorme occupazione dirottandone la metà nella produzione di cibo sostitutivo? Nessuno ha voglia di trovarsi disoccupato per il bene del pianeta, e i Paesi che producono e consumano di più dovrebbero partire da qui con un progetto operativo. Per esempio, quanto personale richiede la filiera industriale della produzione di legumi, che andrebbe aumentata del 20%? Per ora ci sono solo i suggerimenti della Fao: rimuovere i sussidi economici statali al settore zootecnico nei Paesi più sviluppati, riconvertire i terreni dove le produzioni di mangimi stanno sfigurando il pianeta, e contemporaneamente dare più attrezzature a quelle popolazioni dove c’è un allevamento di sussistenza per renderlo più profittevole. Va detto che l’agricoltura italiana, incluso il settore zootecnico, è una delle più sostenibili in Europa per quel che riguarda le emissioni di gas serra: il 23% in meno rispetto alla Spagna, il 55% in meno a confronto della Germania e 61% della Francia. 

Siamo però lontani dal processo di riconversione. Potrebbe essere innescato dai consumatori: se cominciamo a modificare le nostre abitudini alimentari con una dieta più sana, l’industria si adegua, poiché è noto che il mercato segue sempre la domanda.