Corriere della Sera, 17 febbraio 2020
Intervista a Niccolò, il diciassettenne rimpatriato
Paura per la febbre? Senso di vuoto, angoscia per quelle due notti in cui è rimasto a terra mentre gli altri partivano? La voce di Niccolò è sicura, racconta la sua avventura come un radiocronista distaccato, al telefono dalla stanza dello Spallanzani a Roma. «La febbre, beh, mi faceva arrabbiare perché non avevo nessun sintomo, non sentivo nemmeno i brividi, sapevo di averla solo perché me la misuravano», dice il ragazzo. I medici che lo hanno accolto dopo il viaggio avventuroso confermano che «il giovane italiano arrivato da Wuhan è in buone condizioni». Niente virus.
E quella notte di due settimane fa, quando dall’Italia era venuto a prendervi un aereo militare per riportarvi a casa dalla città dell’epidemia, com’è andata?
«La prima volta sono arrivato all’aeroporto di Wuhan il 3 febbraio, pensavo di tornare subito a casa, ma ai controlli mi hanno misurato la temperatura, era 37,7, mi hanno fermato alla dogana, hanno cominciato a farmi domande... sono scesi anche due medici italiani e hanno preso di nuovo la temperatura: 38,2. E... mi hanno detto che non era possibile prendermi a bordo, per vari protocolli. E niente, sono rimasto in aeroporto ad aspettare. Ma ero sempre in contatto con la dottoressa Sara e l’ambasciata». La dottoressa Sara è la professoressa universitaria Sara Platto, che vive a Wuhan da sette anni e ha deciso di non farsi evacuare. È a lei che si è rivolta la nostra ambasciata di Pechino in quella notte drammatica. Ed è cominciata una storia di solidarietà e spirito di adattamento italiano. «Al mattino sono andato in ospedale per le analisi. All’uscita c’era mister Tian e da lì è cominciata l’avventura a Wuhan. Mi ha portato in un albergo, è arrivato il risultato del test ed ero negativo al virus. Da allora sono rimasto chiuso in quella stanza». Mr. Tian è di Wuhan, ha trent’anni, fa la guida turistica e il volontario per la ong ambientalista «China Biodiversity Conservation and Green Development Foundation», guidata da Pechino dal dottor Zhou Jinfeng. Sara Platto fa la consulente per la ong e ha attivato la rete di protezione intorno al ragazzo.
Una lunga settimana di attesa, l’Italia in ansia.
«Sì, sono uscito solo per tornare in aeroporto dove c’era un volo degli inglesi. Ma mi hanno preso ancora la temperatura ed era 37,4 e anche lì hanno deciso che non potevo salire. Fino all’altro giorno, quando è venuto l’aereo speciale organizzato dallo Stato italiano».
Niccolò, ora la racconti tranquillo, ma veder partire 66 connazionali la prima volta e altri 8 la seconda e tu sempre a terra con quella febbre che nemmeno ti sentivi addosso, non deve essere stato facile da accettare.
«La prima notte non ho capito subito quello che stava succedendo, ho telefonato ai miei genitori e pensavo che erano lontani e mi aspettavano. Subito dopo all’ambasciata e... sì, un po’ di paura, ma panico mai. Mi sono detto: se vai in panico non risolvi nulla. Ho pensato di doverla prendere come una lezione della vita e sapevo di non essere solo, che un sacco di persone mi stavano aiutando. La seconda volta mi sono arrabbiato, non era possibile, ancora la febbre che io non mi sentivo di avere. Ma fuori ad aspettarmi questa volta era rimasto Mr. Tian... e beh, è stato diverso dal 3 febbraio».
Come eri finito a Wuhan?
«Per caso. Ero in Cina da agosto, con un gruppo di cento studenti italiani del programma Intercultura. Io stavo in una famiglia cinese al Nord, nella provincia di Heilongjiang. Il 19 gennaio siamo andati nello Hubei, a visitare i nonni della coppia che mi ospitava. Un villaggio di campagna, 50 case. E quel giorno sono arrivate le notizie dell’epidemia. Sono rimasto chiuso lì, fino al 3 febbraio». È in quella casa di campagna poco riscaldata che Niccolò deve aver preso freddo, l’origine di quella febbricola.
Il ritorno, isolato in bio-contenimento, in tv sembrava un film di marziani...
«Eh eh, non è stato scomodo, ero lì disteso sulla barella, chiuso e ho dormito per dieci ore, quasi tutto il viaggio, mi sono svegliato poco prima di atterrare a Pratica di Mare. Diciamo che è stato un po’ surreale, mica ti capita tutti i giorni di essere trasportato in biocontenimento».
Amici cinesi durante i mesi di studio, prima dell’emergenza?
«I primi tre mesi eravamo in una classe internazionale, poi da dicembre abbiamo cominciato a frequentare lezioni con ragazzi cinesi, per imparare la lingua. Bello stare insieme, anche se loro sono molto indirizzati verso lo studio, qualsiasi cosa che potrebbe distrarli la evitano. Ma è stato bello e spero di tornare a studiare in Cina, dopo l’epidemia. E soprattutto voglio andare a ritrovare tutti quelli che mi sono stati vicini, mister Tian, il dottor Zhou e la dottoressa Sara e il personale dell’ambasciata, il console Poti».
Un ragazzo rispettoso e gentile Niccolò, continua a dire signor, dottor, dottoressa.
Che cosa ti resta di questo rapporto nato in giorni strani?
«Con mister Tian si è instaurata una bellissima amicizia, mi è stato vicino, usciva per portarmi da mangiare, mi ha accompagnato, mi ha assistito e quando finalmente ero davanti all’aereo speciale mi ha detto “mi mancherai”. Ci siamo scattati una foto con la maschera prima di andare all’aeroporto, il signor Tian, io e Bai, un’altra volontaria. E con la dottoressa Sara ci siamo sentiti di continuo per tutti quei giorni, anche se non ci siamo mai visti di persona, lei mi ha sostenuto con tante chiamate».
Sara insisteva con noi a chiamarti «il ragazzo», anche se tutti in Italia sapevano che sei Niccolò, hai 17 anni e la tua casa è a Grado.
«Sono Niccolò, ma anche “il ragazzo” mi piace».
Preoccupato per Sara e Tian rimasti nel ground zero del virus?
«La dottoressa Sara cerca di stare sempre a casa e quando esce prende le giuste precauzioni, spero che non le succeda proprio niente. Il signor Tian gira sempre con la sua tuta completa. Li rivedrò».
E ora?
«Aspetto che i miei genitori mi portino il computer, qualche libro e tra dodici giorni esco e torno a studiare. Liceo artistico, mi piace l’architettura greca e romana».