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 2020  febbraio 17 Lunedì calendario

Intervista a Francesca Bellettini (Yves Saint Laurent)

Francesca Bellettini da sette anni guida una delle più importanti e blasonate aziende del lusso francesi: Yves Saint Laurent. Il suo nome a Parigi sta correndo veloce per aver fatto entrare la storica maison nel club dei grandi del lusso, all’altezza di Dior e Chanel, almeno come percezione del marchio. Ma la sua storia è molto particolare: viene dal “banking”, cioè ha fatto l’analista per diversi anni alla Goldman Sachs e poi alla Deutsche Morgan Grenfell, a mangiare pane e numeri. E poi grazie a Patrizio Bertelli è arrivata l’opportunità di fare il salto nell’industria del fashion, dalla quale non si è più staccata, fino a scalarne i vertici. Il successo non sembra averle dato alla testa, anzi. È un capitano d’azienda con i piedi per terra e non ci sta a portare la bandiera degli italiani che si prendono la rivincita sui francesi colpevoli, per così dire, di aver fatto razzia di aziende nel Belpaese. «Per me la meritocrazia è la prima cosa, al di là del gender e della nazionalità, e voglio che questi principi siano diffusi in azienda — dice con tono pacato ma fermo nel suo ufficio in rue de Bellechasse —. Non voglio che una persona venga giudicata per essere uomo o donna, per essere francese o inglese, per il colore della pelle. Per me valgono la competenza e le pari opportunità. Prendere la maternità o la paternità per noi è uguale, maternità naturale, adozione o qualsiasi tipo di unione».
Dottoressa Bellettini, avete appena annunciato di aver sfondato la soglia dei 2 miliardi di fatturato nel 2019. Di chi è il merito di questa crescita impetuosa?
«Superare i 2 miliardi di fatturato era un passaggio importantissimo, ma lo è anche ottenere il record di profittabilità con un margine operativo sopra il 27%. La crescita negli ultimi 4 anni è stata in accelerazione, i mercati sono bilanciati. Da quando sono arrivata, 7 anni fa, il fatturato è quadruplicato passando da 500 milioni a 2 miliardi. Sette anni fa Ysl era un’azienda con una grandissima struttura sottoutilizzata e con François-Henri Pinault (ceo di Kering, gruppo che controlla Ysl, ndr ) abbiamo deciso di spingere sui ricavi invece di tagliare i costi. Non sono in tanti che ti dicono: va bene, investiamo. Lui ci ha creduto».
La crescente diffusione del coronavirus vi preoccupa?
«L’impatto si sente. Non siamo molto dipendenti dalla Cina che però rappresenta una fetta grossa del fatturato del lusso mondiale. Più che altro si genera un effetto psicosi che non impatta unicamente il consumatore cinese. La priorità è stata quella di garantire la sicurezza dei dipendenti e al momento nonc’è una grande visibilit à sul futuro.
Ma non è la prima volta che succede e sono sicura che passerà e la Cina diventerà un mercato più forte di prima».
Qual è stato il fattore chiave della crescita?
«La rifocalizzazione del brand, in tutta la sua essenza. Ho trovato un’azienda già forte nel “ready to wear” ma anche nella pelletteria e nelle calzature. Mancava però una spinta sul posizionamento del brand, che aveva un’identità un po’ confusa. Il nuovo marchio Saint Laurent Paris è servito per far capire che oggi facciamo “ready to wear” e non alta moda. Certo la maison continua a chiamarsi Yves Saint Laurent, ma nel marchio non c’è più il nome di Yves perché era l’etichetta dell’alta moda da cui, alle origini, è iniziato tutto».
A metà del suo percorso lei ha però dovuto cambiare cavallo, cioè sostituire il precedente direttore creativo, Hedi Slimane, con il nuovo, Anthony Vaccarello.
Perché l’ha fatto?
«Con Hedi avevamo deciso di comune accordo di non continuare dopo la scadenza del suo contratto.
Avevo notato, senza conoscerlo, che Anthony aveva uno spirito molto in linea con Saint Laurent. Stava facendo benissimo con il proprio brand e con Versus e vedevo una sua coerenza naturale con i nostri valori. Quando l’ho incontrato non avevo un piano B, ma per fortuna ha accettato».
Le sfide però non sono finite: Pinault le ha fissato un obiettivo ancora più ambizioso, 3 miliardi di fatturato. Come pensa di raggiungerlo?
«Da ex banker mi piace lavorare su un orizzonte temporale e con obiettivi precisi da raggiungere.
Quando l’anno scorso facendo il budget abbiamo capito che saremmo arrivati a 2 ho detto a François-Henri che dovevamo fare un “full potential” da 5 miliardi e lui adesso ha dichiarato nell’intervista con Repubblica che 3 miliardi è il prossimo obiettivo, e anche di più.
Ha ragione».
In quali aree Saint Laurent può crescere ancora?
«Abbiamo solo 222 negozi che per un’azienda da 2 miliardi è poco.
Negli ultimi sei anni abbiamo aperto circa 20 negozi all’anno netti e crediamo ci sia un potenziale pernuovi punti vendita o per rilocare.
Prendiamo Milano come esempio: abbiamo aperto in via Sant’Andrea e adesso ci siamo spostati in via Montenapoleone in una location più grande».
Non è antistorico continuare ad aprire negozi fisici vista la forte crescita dell’e-commerce?
«In realtà no, perché il negozio fisico serve da complemento all’e-commerce che per Saint Laurent è il negozio più grande del mondo in termini di fatturato e in fortissima crescita. Ma non può sostituire il negozio fisico. Nelle location giuste devi esserci e per noi alcuni mercati non sono ancora stati esplorati, come il Sudafrica».
Secondo lei perché le case di moda italiane non sono riuscite a creare un grande gruppo multimarchio come hanno fatto i francesi con Kering e Lvmh?
«Credo si debba considerare la fortissima inclinazione della Francia a fare sistema paese e la bravura e lungimiranza di un imprenditore come François-Henri Pinault. Ha costruito un portafoglio di marchi con il preciso obiettivo di creare sinergie. Come imprenditore ti sta di fianco, non ti schiaccia ma ti sostiene. E butta il cuore oltre l’ostacolo. A manager come me piace essere gestiti così».
La sostenibilità è una questione di marketing o è determinante perché in futuro le aziende più sostenibili saranno premiate dagli investitori o dai consumatori?
«Siamo sostenibili perché pensiamo che sia giusto. Lo facciamo in modo culturale ed estremamente organico, non perché va di moda.
C’è un direttore sostenibilità che riporta direttamente a me e tutta la prima linea ha una parte degli obiettivi legati alla sostenibilità con i bonus che dipendono dal raggiungimento di tali obiettivi».
Se un giovane designer volesse entrare nel vostro ufficio stile si troverebbe la porta aperta o sbarrata?
«Dovrebbe mandare il curriculum all’ufficio del personale e le assicuro che verrà letto. Abbiamo un programma con l’IFM, la scuola francese fondata da Bergé, per un corso speciale sia di design sia di management della moda. Gli studenti hanno la possibilità di fare un internship in azienda e molto spesso poi li assumiamo. È importante avere accesso a questi talenti».
Chi sarà il nuovo Anthony Vaccarello?
«Di Anthony Vaccarello ce n’è uno solo».