il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2020
Marcello Barlocco, il poeta da rinchiudere
La figura di Marcello Barlocco vive più nella leggenda che nella realtà, nella cronaca nera più che nelle cronache letterarie. I suoi testi girano in una cerchia ristretta di cultori, vanno esauriti da piccoli editori che accontentano le esigenze di alcuni devoti. Tra i pochi che tentarono di trascinarlo fuori dal ghetto ci fu Carmelo Bene, quando nel 1961 gli mise in scena Tre atti unici al Teatro Eleonora Duse di Genova. E di Barlocco scrisse: “Un folle straordinario… interessante scrittore. Alto un metro e novanta, pesava trenta chili. Faceva impressione. L’avevano internato per vent’anni in manicomio, l’appendevano all’ingiù con la testa nel cesso. Raccontava anche strani riti, di messe nere, di bambini sacrificati, ma nessuno gli dava ascolto”. Forse già allora la leggenda deformava la realtà.
Marcello Barlocco era nato nel 1910 con i cromosomi del maudit. Le origini borghesi ereditate dal padre, farmacista di Carcare in Liguria, furono presto cancellate da una sete di orizzonti sfrangiati. Abbandonò la facoltà di farmacia e come punizione venne spedito sulle navi per un’improbabile carriera nautica. Tornato a terra riuscì a completare gli studi ma subito riprese a seguire la sua natura, scrivere, vagabondare. Si trovò a Roma tra i bohemien del dopoguerra. Nel 1949 ebbe una particina in un film di Monicelli dal titolo beffardo: Al diavolo la celebrità. In realtà era la celebrità che aveva mandato al diavolo lui fin dalla nascita. Di quel periodo esiste un documentario di Virgilio Pallottelli intitolato Ultima Boheme, dove si vede un Barlocco quarantenne già segnato dalla vita. In quel calderone di aspiranti alla celebrità c’erano Mimmo Rotella, Piero Dorazio, Sebastiano Matta, Anna Salvatore. Riuscirono tutti a emergere, solo Barlocco non trovò mai la porta per uscire dall’ombra.
Il suo primo libro, Racconti del Babbuino, raccoglie storie cupe, fatte di lampi disperati, rovinosi abissi, cadaveri, ossari, fantasmi e altri alfabeti neri che evocano Poe. Il noir è a volte humor noir, assurdo, dadaismo. “Molto interessante… racconti intrisi di un’amarezza toccante… un disperato furore…” scriveva Geno Pampaloni su Belfagor. Ma al Premio Viareggio Barlocco raccattò solo qualche approvazione critica, il suo non era libro da premi italiani con serate finali per signore in lungo e signori in papillon.
In mancanza di riconoscimenti ricorse ai suoi studi in farmacia, che gli avevano dato una certa familiarità con i miracoli della chimica. E nel 1958 Barlocco venne arrestato a Milano come capo di una gang internazionale di spacciatori. Cercò di spiegare alla polizia che era finito lì dentro per scrivere un libro sulle droghe e su quell’ambiente, ma un commissario nemico della fantasia lo mandò in galera. Dalla prigione venne trasferito nel manicomio di Reggio Emilia come squilibrato dedito a sostanze stupefacenti. Si apprende da un articolo della Stampa (primo marzo 1961) che fece un esposto alla magistratura per aver subito esperimenti di “imbalsamazione vivente”, e queste torture gli avrebbero “mineralizzato l’organismo”. Dentro il manicomio si commettevano omicidi, sevizie chimiche e riti sacrileghi, denunciava Barlocco. Fu accusato di calunnia dalla direzione dell’ospedale psichiatrico, ma nel 1965 venne scagionato.
Riuscì a pubblicare in queste travagliate vicende un altro libro di racconti Per chi danza l’orso viola e un romanzo, Veronica, i gaspi e Monsignore, storie di allucinazioni, di personalità altalenanti tra Jekyll e Hide. Anche i giornali delle opposte parrocchie, L’Unità e Il Popolo, gli accettarono qualche racconto. Tuttavia un’ostinata nuvola d’ombra sembrava seguirlo in ogni tentativo di emergere. Forse la sua originalità visionaria metteva in crisi i critici, che non sapevano come inquadrarlo. E lui se ne guardava bene dall’inquadrarsi, andava rassegnato alla deriva: “Io mi suicidavo per il dolore di non conoscere la ragione per cui avevo deciso di suicidarmi!”. I rapporti con gli editori erano disastrosi: “Quando uno scrittore che non è un pederasta o non ha una giovane piacente moglie disposta a fare dei piaceri, o non frequenta il salotto Bellonci o non è cugino dell’onorevole Andreotti, sarà riuscito a trovare un grande editore italiano che gli pubblichi un suo romanzo, allora sarà trascorso un solo secondo di eternità”. Si riferiva all’apologo orientale che paragonava un secondo di eternità a infinite decine di migliaia di anni.
L’occasione per riparlare del suo caso è l’uscita di un’edizione antologica dei suoi scritti da Giometti & Antonello. Un negro voleva Iole. Racconti scelti e aforismi inediti. Barlocco scomparve nel 1972, e prima di andarsene si ridusse a leggere poesie nei night club di Roma passando col piattino per le monete, come racconta Tonino Conte in L’amato bene. Era nato per osservare i mondi remoti dell’immaginazione e invece fu costretto a guardare nel piattino sotto il naso per capire se esisteva la possibilità di una cena.