il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2020
Così Facebook deciderà le elezioni americane
Chiara Ferragni ha 18,4 milioni di follower su Instagram, più di quanti spettatori possano contare tutti i talk show italiani sommati. Che succederebbe se, sotto elezioni, indossasse una canotta con la faccia di Matteo Salvini o facesse un appello contro l’astensione? Anche la politica inizia a capire che gli influencer – come il nome suggerisce – influenzano e riescono a raggiungere un pubblico che non guarda la tv e men che meno si abbona ai giornali. Potrebbe non essere una cattiva notizia: la ricerca del consenso torna capillare, ogni voto è importante e la competizione aumenta, è molto più difficile controllare tutti gli influencer rilevanti che tre reti della televisione di Stato. C’è solo un problema: l’arbitro di questa competizione – la piattaforma social che ospita gli influencer – può decidere chi vince.
Il miliardario di New York Michael Bloomberg sta cercando di vincere le primarie di un partito Democratico che non lo ama grazie al suo patrimonio personale. Come rivelato dal Daily Beast, il suo staff ha fatto un accordo con la piattaforma Tribe: mini-influencer, gente che ha tra i 1000 e i 100.000 follower, possono ricevere 150 dollari a post se propongono a Tribe contenuti favorevoli a Boloomberg, che elogiano la sua storia di successo. Tecnicamente non è Bloomberg a comprare i post degli influencer, ma Tribe: i contenuti cosi risultano “organic”, cioè naturali, non pubblicitari. Ma Bloomberg ha anche lanciato la sua offensiva su Instagram grazie a un’altra società, Meme 2020: post autoironici, che gli utenti scambiano per autentici meme ma sono costruiti (e pagati) dalla campagna di Bloomberg. Facebook, che possiede anche Instagram e WhatsApp, ha deciso che questi meme politici sono esenti dalle regole sulle inserzioni politiche, con un argomentazione opinabile: Bloomberg paga per pubblicare i meme, ma non per promuoverli (cioè renderli più visibili), quindi non vanno considerati contenuti sponsorizzati e sono esenti dagli obblighi di trasparenza che Facebook impone al resto della comunicazione politica i cui promotori devono dichiarare quanto spendono e per promuovere quali contenuti.
Il 9 gennaio Facebook ha anche annunciato le sue linee guida sul controllo preventivo di questi spost: zero filtri, se ci sono fake-news o distorsioni, saranno gli utenti stessi a sanzionare il politico che racconta bufale. Molto democratico, no? Peccato che dal 2016 siamo entrati nell’era del micro-targeting: non tutti gli utenti vedono gli stessi contenuti, la precisione di Facebook permette di mostrare propaganda politica contro gli immigrati a chi è più sensibile al tema immigrazione o sull’aborto a chi vota in base alle questioni dei diritti civili. Nel 2016 la campagna di Trump ha immesso su Facebook 5,9 milioni di annunci politici diversi, contro i 66.000 di Hillary Clinton che puntava ancora sui media tradizionali, in particolare la televisione. Facebook non permette ai ricercatori di accedere ai suoi dati per vedere che effetto hanno queste tattiche, ma un gruppo di economisti ha trovato un modo per studiarlo comunque. Federica Liberini (Università di Bath), Michela Redoano (Warwick), Antonio Russo (Loughborough), Ángel Cuevas Rumin (UC3M), and Ruben Cuevas Rumin (UC3M) hanno osservato i picchi di micro-targeting nel 2016 deducendo la domanda dagli andamenti dei prezzi dei costi per mille impressioni (Cpm) e costo per clic (Cpc). I prezzi variano continuamente e sono determinati da un’asta: più alto il prezzo, più alta la domanda. Con questo sistema si può capire quali gruppi di elettori i candidati hanno messo nel mirino e poi stimare gli effetti confrontando il voto di quei gruppi di popolazione col resto dell’elettorato.
Gli effetti del micro-targeting sono stati rilevanti: gli elettori Democratici diventavano meno inclini a votare per Hillary e quelli Repubblicani più trumpiani. Un aumento del 10 per cento del costo per mille impressioni (Cpm) nei giorni prima del voto riduceva del 3,9 per cento la probabilità che un potenziale elettore di Trump cambi idea. L’effetto era doppio tra gli uomini e gli elettori conservatori. “Donald Trump era il candidato perfetto per Facebook”, come ha detto il suo stratega digitale Brad Parscale.
La politica è anche marketing, niente di male in questo: nel 2016 Trump ha capito il potenziale del micro-targeting e Hillary no, nel 2020 Bloomberg ha fatto un passo avanti e punta su influencer e meme. Ma la competizione è truccata: soltanto Facebook sa in tempo reale quali di queste tattiche funzionano e quali no, basta un piccolo cambio delle regole della piattaforma (vietare il micro-targeting, fare il controllo preventivo dei contenuti, impaginare diversamente le inserzioni politiche o bloccarle del tutto come ha fatto Twitter) per favorire un candidato o danneggiarne un altro. La politica degli influencer non è più democratica di quella combattuta a colpi di annunci tv e giornali, perchè alla fine l’unico voto che conta è quello di Marck Zuckerberg, fondatore e padrone di Facebook. E a Zuckerberg, come a tutti gli industriali della storia, interessa una sola cosa: avere un presidente degli Stati Uniti che non intacchi il suo potere. La tecnologia e l’assenza di regole vincolanti gli permettono di decidere il prossimo inquilino della Casa Bianca.