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 2020  febbraio 16 Domenica calendario

Biografia di Max Tortora raccontata da lui stesso

Si apre una porta, esce Max Tortora. Si avvicina alla compagna, e con il suo tono misto di verità e ironia detta la linea: “Oh, qui è pieno di giornalisti, non raccontare niente di personale”. Sorride e rientra nella stanza, dove con Carlo Verdone, Anna Foglietta e Rocco Papaleo sta presentando Si vive una volta sola (in sala dal 26 febbraio). Passano altri cinque minuti (reali) e di nuovo appare, e di nuovo si raccomanda: “Guarda che sono tremendi, niente di personale”. Quindi si giustifica per la replica: “Devo andare in bagno”.
Max Tortora è struttura, stratificazione, riflessione e sofferenza della riflessione stessa, fino alla sintesi di un pensiero basato sulla verità. La verità è la sua Stella polare. Quindi approfondisce, elabora, progetta (“ho trenta sceneggiature scritte. A volte mi sveglio la notte con un’idea ed è la fine. O l’inizio”).
Max Tortora è un uomo riservato (“non ho neanche i social”) e alla fine dell’incontro ci tiene a specificare: “Questa è la mia ultima intervista. Trovo più giusto parlare con il mio lavoro”.
Dal dramma Cucchi a Verdone, è tra i pochi interpreti a toccare generi opposti.
Un attore deve solleticare tutte le corde, così come il pianista può suonare tutta la tastiera; mal sopporto le ghettizzazioni e ho cercato di non farmi incastrare.
Ci hanno provato?
Certo, ma sono sgusciato con una certa fatica; poi molto dipende dalla stagione della vita: oggi ho quasi sessant’anni e interpretare un padre, magari in età avanzata, o un uomo affaticato, magari sconfitto, lo sento mio. E lo capisco subito dalla sceneggiatura.
Cosa legge?
Attualmente il primo tomo di psicoanalisi di Enrico Morselli (antropologo e psichiatra morto nel 1929) dedicato ai sogni.
Verdone ha dichiarato che se si guarda allo specchio non trova un settantenne. Lei quindi vede il sessantenne…
Sono stato uno studioso di Anna Magnani, che oramai sento come una parente, e lei andava orgogliosa delle sue rughe; allo stesso modo io celebro ogni mio capello bianco, ne conosco la storia, uno per uno, e la fatica.
Uno per uno.
La vita è un’esperienza difficile, e in troppi danno per scontata la semplicità di riportare a casa la pelle.
Professionalmente è esploso tardi.
Nel 2001 un giornalista mi ha chiesto: “Dov’è stato fino a oggi?”. Ho risposto che ci sono sempre stato, che non ho mai vissuto la gavetta, perché ho sempre campato del mio lavoro grazie al teatro, con compagnie fortunate e colleghi come Nicola Pistoia e Pino Ammendola.
E…
Non avevo la popolarità, non andavo sui social, non finivo in tv, ma alla fine dello spettacolo trovavo sempre qualcuno rimasto per complimentarsi. E mi bastava.
Primo autografo?
Non me lo ricordo, però grazie a un sogno ho capito di aver iniziato a firmarli.
Cioè?
Non mi ero reso conto della novità: se mi fermavano per strada o semplicemente mi riconoscevano, non avevo ricondotto quelle manifestazioni a un salto di popolarità. Non ci avevo pensato. Poi una notte ho sognato un autografo e ho capito.
Sono stati “I Cesaroni”.
Il vero botto; nel 2006 raggiungo a piedi un amico, e mentre cammino sento un’infinità di clacson. Io stupito. Mi guardavo attorno con l’interrogativo del “che sta a succede?” Poi all’improvviso mi sono illuminato.
Su Internet c’è poco di lei.
Non esisto, e non posso prendere una pizza d’asporto perché non ho neanche il nome sul citofono.
Con un suo filmato realizzato da Verdone durante le riprese è finito sui social.
Lo so, con Carlo che ogni cinque minuti mi cercava per le varie stanze e mi aggiornava sul crescere dei contatti. Lui è social. Io proprio zero.
Lavorare con Verdone è la summa per molti suoi colleghi.
Per anni è stato il mio sogno, e quando è arrivato il momento quasi non ci credevo.
Nel film avete tempi perfetti.
Carlo cerca la verità, e questo mi piace: se non credo in un progetto non sono in grado né di far ridere né di far piangere; mentre con lui mi sono divertito tanto, a volte non pensavo neanche di stare su un set.
Lei e i selfie.
Lì l’unico problema è la mia altezza: ogni volta mi chiedono di scattare io la foto perché altrimenti non entrano tutti nell’obiettivo, solo che nun ce vedo, e le foto escono storte o sfocate.
Uno dei suoi primi successi è Califano.
Le imitazioni sono nate per strappare una risata ai colleghi, per farmi accettare: perché una battuta rasserena il clima e si vive meglio.
Serve…
Spesso le tournée sono state molto difficili, dove non c’era da magnà e da dormì, dove scendevi dal letto e non sapevi cosa trovavi; una volta ho pestato un topo morto.
Quindi…
Ho iniziato a imitare Alberto Sordi, Franco Califano e magari Adriano Celentano, ma mai mi sarei immaginato il risultato finale: mi è esploso addosso, e non sono più stato in grado di gestire la situazione.
Addirittura?
A un certo punto mi chiamavano i giornalisti per domandarmi quali personaggi stavo preparando. E io non sapevo cosa rispondere, perché non ho mai studiato nessuno, mai preparato niente. Mi venivano.
Molti suoi colleghi hanno iniziato a scuola con le imitazioni dei professori.
Anche io, ma l’imitazione fine a se stessa non serve a niente, può diventare triste e anacronistica; le mie erano parodie dove non primeggiava la voce ma l’atteggiamento e l’accento su una debolezza reale del protagonista.
A scuola occupava e scioperava?
Ho avuto un rapporto conflittuale: fino alla prima media ho frequentato un istituto delle suore molto valido, e il mio errore è stato quello di voler andar via, perché mi sentivo poco figo, volevo diventare uno di quartiere; (cambia tono) sì, è stato il più grande errore della mia vita, da lì ho solo cercato di recuperare.
Risultato?
Molte volte mi sono accorto solo dopo di essere stato bene, per questo quando sento qualcuno lamentarsi, e mi rendo conto di qual è la sua realtà, avverto il dovere di dirgli come stanno i fatti.
Le piacciono ancora le tournée?
No, e sono anni che non parto più. Voglio il cinema, voglio stare dietro la macchina da presa, raccontare storie.
Basta teatro.
Non sopporto la routine, perché quando di una scena ho cavalcato tutte le sfumature possibili scatta la noia.
Spesso l’input di chi si avvicina al teatro è di voler superare la timidezza.
Lo ero da ragazzino, e lo sono ancora, però ho affrontato platee da 2.000-2.500 persone. Non credo a quella tesi.
E allora?
Basta essere padroni di quello che si fa; quando non lo sono stato, ho evitato di presentarmi.
Scaramantico?
Per niente.
Gioca alla lotteria?
No, e non vincerò nulla.
Mai un poker?
Solo una volta e per una notte intera insieme a quattro amici: ho conquistato tutte le poste sul tavolo, e ho capito di non dover mai più replicare una situazione del genere.
Le era piaciuto troppo?
Sì, per questo ho smesso.
Vizi?
Solo uno: fumo tre Marlboro prima di andare a dormire.
Tutte le sere?
Sì, è un premio.
Come nasce?
Per anni il lavoro non è stato proprio continuativo, magari venivo scritturato per tre mesi e altrettanti rimanevo fermo; nei momenti di stop, passavo le giornate in cerca di soluzioni, e per rassicurarmi pensavo: “Tanto questa sera torno a casa mia, bella doccia calda, e mi concedo tre Marlboro”.
Di giorno fuma?
Non tocco una sigaretta. Poi mi dedico “le tre” e vado a letto felice
Con un bicchiere di alcolico?
Mai, bevo pochissimo (alle sette di sera il suo aperitivo è un analcolico).
E se non dà la “botta” di nicotina?
Sono capace di uscire di casa alle quattro del mattino per acquistarle: oramai è un fatto fisico.
I soldi per lei.
Sono importanti perché li ho avuti e non ripresi.
Tradotto.
Sono nato in una famiglia benestante, poi siamo caduti per un problema e per anni è stata veramente dura, tanto da non avere le risorse per offrire una pizza a una ragazza.
Uno choc.
Da allora ogni mio passo è calibrato: non vado avanti se non ho la certezza di esserne in grado. E non sono tirchio, ma accorto.
Altro che choc.
Quando gli altri bambini stavano per strada a giocare, la mia famiglia la domenica andava a pranzo fuori. Per me il ristorante era una piacevole consuetudine terminata al compimento dei trenta. (Ci pensa).
E di cosa ha paura?
Di niente. Forse solo di dire fregnacce, perché come diceva Nanni Moretti “le parole sono importanti” e con la vecchiaia ho imparato a stare zitto se non ho niente da dire. Prima non era così.
Non si sente obbligato a tenere banco?
No, non devo più dimostrare niente a nessuno e non posso rischiare la fregnaccia.
Lei da bambino.
Sono uguale: se chiudo gli occhi sono lo stesso di quando avevo tre anni. Sono sempre io.
Per Fabio Testi l’altezza lo ha sottratto da una serie di complessi. Lei è 1.97.
Amo la simmetria, le proporzioni, l’armonia, per questo ho dovuto lavorare sul corpo per non muovermi da alto, per non venir incanalato e schiavizzato nei caratteristi.
Pure qui c’è uno studio.
Sia posturale che di emanazione: se entro in un ristorante posso decidere se mi si deve notare o meno; ci sono dei momenti che quasi non esisto, per strada mi vengono addosso.
Torniamo ad Alberto Sordi: sono 100 anni dalla nascita.
È il più grande attore al mondo, tutti lo hanno copiato, mentre lui si è ispirato a un solo artista: Stan Laurel.
Lo ha conosciuto?
Sì, il mio desiderio non era solo di stringergli la mano, ma comunicargli che volevo dedicarmi a questo mestiere. Ci sono riuscito. E mi ha intenerito scoprire un uomo totalmente votato al lavoro: non c’era uno stacco. Lui era perennemente Alberto Sordi; (sorride) nessuno era in grado di stargli accanto, fuggivano tutti. Solo Nino Manfredi non lo temeva.
Studiato a fondo.
Emanava un’aura unica, carisma puro. Quell’aura l’ho ritrovata solo in Renato Zero.
Sorcino.
Quando avevo 17 anni, Renato abitava dietro casa mia, fa parte della mia vita, della mia storia.
Esiste la solitudine dell’attore?
Eccome, non so in quanti se la possono immaginare: ho passato ore e ore dentro la roulotte; ore e ore fermo in attesa di girare una scena, un tempo che Mastroianni decantava come momenti di beatitudine, di ricerca di se stessi, di pace. Io no.
Ha dichiarato di essere bugiardo.
Ma non è vero, purtroppo in questi anni mi hanno messo in bocca di tutto, compreso che sono amante del wrestling o che sono scappato da Roma per il troppo rumore.
In realtà?
Del wrestling non mi importa nulla, e mi piacerebbe saper dire qualche bugia; proprio non sono capace, se ci provo inizio a balbettare (la sua compagna gli si siede davanti. Ascolta. Sorride. E annuisce).
È laureato in Architettura. Oltre agli studi ha solo recitato?
No, per un periodo ho lavorato nell’albergo diretto da mio padre: ancora oggi non mi sfugge nulla, appena entro so già se si dorme bene e la qualità del cibo.
Di cosa si occupava?
Reception, ma con papà presente ero molto coccolato; papà era una persona fantastica, divertente, ma un giorno è uscito di casa, stava bene, e non è più tornato. È morto a 66 anni.
Chi è lei?
Uno che è sempre stato alla ricerca di qualcosa che non sa cos’è; ora ho capito di non aver più tanto tempo davanti, e se uno mi chiede qual è il mio prossimo futuro, rispondo: mangiarmi una pizza.
E pagare il conto?
Se posso, sempre.