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 2020  febbraio 16 Domenica calendario

La scrittura al buio di Carlo Levi

Dopo l’edizione del 1979, Einaudi ripubblica nella sua collana più prestigiosa, quella dei Classici dalle copertine monocolore, uno dei testi più singolari della nostra letteratura novecentesca, il Quaderno a cancelli (376 pagg., 21 euro) di Carlo Levi, opera franta, postuma – uscì nel giugno del 1979, quattro anni dopo la morte dell’autore – irrisolta, dilettantesca, sperimentale, fascinosissima. Liquidiamo subito le pedanti notizie filologiche e quelle biografiche, del resto fornite ad abundantiam nella prefazione del curatore, Riccardo Gasperina Geroni. Il libro non esiste così com’è, e se Levi fosse vissuto ancora chissà come lo avrebbe organizzato e corredato di disegni, che in questa edizione sono nove, e se ne avrebbe autorizzata la pubblicazione. C’è stato dunque un lavoro di “restauro” filologico da fogli sparsi di fonti diverse, in alcuni casi la sequenza delle pagine è incerta e un’intera sezione è stata spostata di luogo rispetto alla precedente edizione, ma di questo basta così. Più importanti le circostanze biografiche della composizione: Levi alla fine del 1972 ha un distacco della retina. La necessaria operazione lo costringe a letto, bendato sugli occhi convalescenti. Il recupero della vista richiede mesi, e Levi vuole scrivere (meglio si direbbe: vuole vivere), perciò s’inventa un telaio di fili orizzontali che pone sulla pagina in modo da guidare la scrittura, proprio come i quaderni “a cancelli” degli scolari. Così tra i primi di febbraio del 1973 e il settembre dello stesso anno nasce questo libro classificabile solo nel genere dei libri “inclassificabili”. 

FLUSSO DI COSCIENZA
Non è un diario, non è un flusso di coscienza, non è un memoriale, non è scrittura automatica, non è una resa dei conti, non è una confessione, non è un libro di sogni, ma di tutti questi generi ruba qualcosa e lo fonde con gli altri. C’è da chiedersi il perché di questa stranezza. Innanzitutto proprio perché il “Quaderno” è il libro di un cieco, che non finge di non esserlo, ma che vuole restituire al lettore la scoperta sconcertante di ritrovarsi nelle tenebre: ecco dunque che la prosa perde quella qualità tipica della lingua di essere “visiva”, di riferirsi direttamente o indirettamente a qualcosa che sta sotto la luce, di fronte allo sguardo (e tanto più questo vale per un pittore come Levi); e diventa una scrittura oscura (nel doppio senso della parola) che riflette non già il mondo visibile, ma quello invisibile e, dunque, misticamente, l’unico vero. Levi, come Gloucester nel King Lear di Shakespeare (e naturalmente, l’Edipo di Sofocle), perdendo la vista recupera la reale comprensione delle cose che, però, di fronte a un mondo in rovina, preda dei “Padroni” che dominano alla luce ingannevole del giorno, sembra follia. Già, c’è del metodo nella follia di Levi. Il metodo è quello apocalittico della rivelazione, di chi individua dietro mille segnali la struttura essenziale della realtà, non quella apparente (che per Levi è quella del dominio capitalistico e della lunga storia di sfruttamento e predazione dei forti sui deboli). Il nucleo intatto, sano della realtà è ciò che Levi chiama, sublimemente, il “Futile”. Al Futile si accede distogliendo lo sguardo dalla Medusa paralizzante dei beni, degli averi, perfino dell’arte (cinema, letteratura) che, direbbe la Bibbia, non sono che Vanità, sorella nemica della futilità, perché la vanità si affaccenda, è movimento, mentre quest’ultima è immobile e imperturbata. Ecco dunque che il “Quaderno” come ogni Apocalisse ci propone la contrapposizione tra due mondi, il peccato e la salvezza, il mondo della morte e quello della vita eterna. Il sensorio del primo sono gli occhi, quello del secondo è lo spirito. Gli occhi credono di vedere gloria, successo, potere, e invece lo spirito vede ben altro: «Tutto è già qui e ora Oltretomba, ombra, senza neppure la grazia del colore degli asfodeli.» Ma la visione desolante e buia della realtà come essa veramente è, attraverso «questa visione di ciechi», è «liberatoria». 

FUTILITà
Dunque non è la scienza che può offrirci la vera immagine della realtà, come pure pretende, perché essa pure rimane “visiva” e comunque è al servizio di scopi pratici (sia pure occulti), e della pretesa di mettere ordine nella natura, mentre la Futilità è caratterizzata dal suo «non essere non caotico non ordinato», «né morto né vivo», né Dio né madre – dunque né maschio né femmina – potendosi figurare soltanto come una «grigia spiaggia dove nessun piede si è posato né si poserà mai». In uno dei passaggi chiave del “Quaderno”, uno di quelli che rivelano la sua anima, fa capolino, parafrasata, una citazione celebre dal Macbeth: «la Futilità non consente la proprietà né l’appropriazione: e la proprietà respinge e repelle la futilità per cui tutta la lieta o drammatica storia non è che un impossibile compromesso, un non senso, una vicenda di rumore furore scritta da un pazzo, o quella di silenzio e pazienza dettata da una candela di cera davanti a una immagine annerita.» Ecco i corni del dilemma: proprietà dunque schiavitù, oppure la liberatoria futilità. Dannata luce dell’occhio, oppure eterna notte spirituale.