il Giornale, 16 febbraio 2020
La nuova corsa all’oro tra i ghiacci della Russia
Tutti a parlare delle uova di Alexey. Grande avvenimento le uova di Alexey. E lui infatti si muove tra le gabbie come un galletto, anche il ciuffo biondo sembra una cresta. Si coccola le sue 1500 galline, racconta che sono arrivate lo scorso settembre che erano pulcini, in nave da Vladivostok e passando lo stretto di Bering. Prima, qui a Pevek, dieci uova costavano quasi sette euro (lo stipendio medio è sui 200 euro), perché arrivavano dalla Russia interna con i voli cargo una volta al mese o via mare; ora, con la nuova fattoria di Alexey, non superano i tre euro. Quasi si commuove: «Le mamme mi abbracciano, dicono che per la prima volta possono fare una colazione decente ai figli. Alla scuola e all’ospedale le vendiamo a un prezzo simbolico. Questo non è solo business, ma un segnale di speranza». Il locale è l’ala d’una vecchia caserma, dentro sono 21 gradi, fuori meno 35; il tenue chiarore perlaceo del mezzogiorno sta svanendo nella piatta tundra e si ritorna nella spessa notte polare. Siamo nel comune più a Nord della Russia; Pevek, fondata nel 1967, è un porto sull’oceano Artico, nella Chukotka, regione della Siberia orientale che affaccia sullo Stretto di Bering, e quindi sottoposta al regime speciale di area di confine perché a separarla dall’Alaska ci sono solo tre miglia marine, quelle che intercorrono tra l’isola Piccola Diomede, americana, abitata da un centinaio di Inuit, e la Grande Diomede occupata da un’istallazione militare russa. Gli scossoni del crollo dell’Urss in questa estrema periferia sono stati devastanti. La popolazione in Chukotka è passata dai 148mila abitanti del 1991 agli attuali 50mila circa, è il luogo del Pianeta con la minore densità demografica, dopo l’Antartide e il Sahara. «Negli anni Novanta abbiamo patito la fame, ricordo che per molti mesi non si trovava più il latte, mancavano anche le candele», dice Valentin Toskontinov, 58 anni, geologo, arrivato da San Pietroburgo dopo gli studi universitari, «stregato dallo spirito pionieristico e patriottico d’esplorare le grandi ricchezze di questa regione. Allora erano pochi i russi occidentali, quasi tutti rinchiusi nei gulag staliniani come Kolima Sono uno dei pochi che negli anni Novanta è rimasto», racconta nel suo studiolo affacciato sull’immancabile piazza Lenin. «Poi è arrivato Abramovich». Vladimir Putin assegnò questa estrema provincia nordorientale al magnate del petrolio Roman Abramovich: «Fu scioccato dalla miseria che vi regnava e investì due miliardi del suo patrimonio in scuole e ospedali. Decise di trasferire qui la sede della sua corporation per poter reinvestire le tasse versate». Anche la popolazione nativa, i circa 14mila Chukchi, mandriani di renne e confinati in villaggi dispersi nella tundra, furono in parte risollevati dalla loro disperazione. Dopo aver lasciato il palazzo del governo ad Anadyr nel 2008, la capitale della regione, per passare al Chelsea, Abramovich ha mantenuto qui legami e interessi. Si mormora che abbia acquistato a prezzi stracciati enormi territori dove le mappe tracciate dai geologi sovietici come Valentin indicavano l’esistenza di ricchezze nel sottosuolo. Per poi rivenderli alle compagnie minerarie mille volte più cari, così si dice. E infatti oggi la Chukotka è la nuova frontiera dello sviluppo artico russo: «Qui ci sono i più grandi giacimenti d’oro e rame del pianeta», dice Valentin. A Pevek, dove la popolazione si era ridotta di due terzi, da 15mila a circa 5mila, stanno ritornando professionisti, famiglie, investitori. L’agenzia atomica Rosatom ha ancorato qui la piattaforma nucleare galleggiante, che dovrebbe alimentare le attività minerarie e di estrazione di gas e petrolio offshore, ma anche rimpiazzare tra un paio d’anni la vecchia centrale a carbone piazzata nel centro di Pevek che rende ancora più lugubri e neri casermoni abbandonati negli anni Novanta. Gli interessi si concentrano soprattutto sul porto, destinato a diventare tra i più importanti hub lungo i 6mila chilometri di costa artica russa, in quel mega sistema logistico e marittimo in via di sviluppo chiamato la Northern Sea Route, l’ex mitico passaggio a Nord Est, che con il progressivo scioglimento dei ghiacci e gli enormi investimenti russi, ma anche cinesi, nei piani del Cremlino dovrebbe far concorrenza alla rotta di Suez nel traffico mercantile globale. «L’obbiettivo di Putin», dice un funzionario dell’autorità portuale, «è di passare dalle attuali 50 milioni di tonnellate l’anno di merci trasportate lungo la Nsr agli 80 milioni entro il 2025. Impresa titanica. Una progressione che noi verifichiamo a Pevek con l’aumento di 100mila tonnellate l’anno negli ultimi quattro anni. Entro il 2025 avremo una capacità di due milioni di tonnellate. Siamo la porta d’ingresso e di uscita nello stretto di Bering. Inoltre qui si stanno costruendo tre nuovi docks, finanziati dal Kazakistan, per lo stoccaggio del gas liquido estratto nella penisola di Yamal».
Emoziona trovarsi in uno dei luoghi meno conosciuti del mondo, escluso da ogni circuito turistico. Nei villaggi chukchi la vita è più o meno ancora quella del tempo della pietra, ma è chiaro che questa esclusione dalla modernità durerà poco. Mosca sta investendo in nuove strade, internet è ora accessibile via satellite, sono ripresi i sussidi per le popolazioni native come ai tempi dell’Urss, soprattutto funzionano gli incentivi per chi viene a vivere e investire: prestiti a tasso zero, tasse al 15%. Per questo Alexey dice di amare Putin ben in vista nello stabilimento – quasi quanto le sue galline.