Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2020
Persistenza, memoria e storie dagli oggetti
Se ricordate quel gran libro che è La storia del mondo in 100 oggetti dell’allora direttore del British Museum, Neil MacGregor (edito da Adelphi, che ha poi aggiunto in catalogo altri due suoi libri altrettanto belli; uno sugli oggetti dell’epoca di Shakespeare, che dicono molto del suo mito; e, ora, uno teoricamente più raffinato, molto più “calassiano”, su Vivere con gli dèi), allora non potrete che apprezzare, con identico entusiasmo, l’operazione di Tristram Hunt, direttore reggente dell’altro grande museo storico londinese, il Victoria & Albert. Il libro di Hunt – disegnato in maniera eccellente e quindi bello anche come oggetto – segue appunto la tendenza lanciata da MacGregor, molto percorsa in questi anni: anche recentemente, per dire, nella sontuosa mostra appena chiusa alla Fondazione Prada di Milano, nella quale quel genio e grande esteta di Wes Anderson, con la moglie, l’illustratrice Juman Malouf, ha omaggiato, con il «Sarcofago di Spitzmaus», il valore degli oggetti della collezione di due musei come il Kunsthistorisches e il Naturhistorisches di Vienna. (Un discorso a parte merita il catalogo di questa mostra, libro-oggetto in tiratura limitata: in una parola stupendo).
Hunt ha, dunque, raccontato la storia di dieci oggetti, tra i più particolari del suo museo. Manufatti strepitosi, come la Tipu’s Tiger, un carillon, creato per il Sultano di Tipu nel 1790 che raffigura una tigre che uccide un soldato inglese (il simbolo della vittoria degli indiani sull’impero coloniale britannico), o il Great Bed of Ware, un gigantesco (alto quasi 3 metri) letto elisabettiano a baldacchino, intagliato con intarsi preziosi, o, ancora, il tappeto Ardabil, storia commovente di strappi, ricuciture e ricerca di fondi per restauro, oggi esposto in una grande teca di vetro al centro della galleria di arte islamica. Di questi oggetti, Hunt racconta le vite, ed è proprio la parola giusta. Come sono stati creati, come sono arrivati al museo, come li restaurano, come, oggi, sopravvivono e (ri)occupano il centro della scena. Hanno una storia e la devono poter raccontare.
Qui entriamo nel cuore della questione: perché è nel crinale decisivo di cosa conserviamo, e perché, e in che cosa decidiamo di credere o da cosa farci raccontare storie che si cela una parte della nostra identità. A svolgere in maniera sublime il ragionamento (sotto mentite spoglie di grande letteratura) è la scrittrice tedesca Judith Schalansky (sì, quella del fantasmagorico Atlante delle isole remote) in un libro di clamorosa bellezza – letteraria certo, ma anche per idea creativa e realizzazione pratica – che si intitola Inventario di alcune cose perdute (nottetempo, pagg. 252, € 19). Scrive nella prefazione: «Gli archivi, i musei e le biblioteche, i giardini zoologici e le riserve naturali non sono altro che cimiteri amministrati, e i beni in essi conservati non di rado sono stati strappati al ciclo vitale del presente per poter essere messi da parte, anzi dimenticati, proprio come gli eventi e le figure eroiche i cui monumenti popolano i paesaggi urbani». La premessa serve per spiegare l’operazione che compie l’autrice. Di «alcune cose perdute» (che so, l’isola di Tuanaki, l’estinta tigre del Caspio, lo scheletro, falso, di un unicorno) Schalansky “immagina” storie che servano a farle rivivere. È il punto decisivo, la forza, ontologica, del libro. La letteratura resuscita anche ciò che sembra perduto. «Come tutti i libri, anche questo è mosso dal desiderio di far sopravvivere qualcosa, di far rivivere il passato, rievocare le cose dimenticate, dare la parola a quelle ammutolite e rimpiangere quelle che abbiamo mancato di fare. Nulla può essere riportato indietro con la scrittura, ma tutto si può rendere esperibile (corsivo mio). Cosí questo volume parla in egual misura di ricerche e ritrovamenti, perdite e conquiste, e lascia intuire che la distinzione tra presenza e assenza può essere marginale finché esiste la memoria». O la forza rigeneratrice della narrazione. Gli oggetti persistono, semplicemente, e superano spesso la nostra fragile vita. Ma a renderli animati siamo noi: ci dicono qualcosa le rovine, ci raccontano i vasi dentro le teche, spiegano di noi i ninnoli sopra la mensola di casa. Ascoltiamo la loro narrazione per bocca degli scrittori, sciamani dell’inanimato, portatori sani di immaginazione e meraviglia, a beneficio del futuro e del passato, la terra incognita dalla quale veniamo e che, a sua volta, ci aveva immaginati.