Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2020
Il primo impeachment, quello di Andrew Jonhson
Andrew Johnson era vicepresidente da un paio di mesi quando Lincoln fu assassinato e lui si trovò sbalzato in un ruolo per il quale non lo avevano preparato né la sua scarsa cultura né la sua oratoria demagogica, ma solo opportunismo ed enorme ambizione. Era membro del partito democratico, che si opponeva all’abolizione della schiavitù, e a sua volta padrone di schiavi. (All’epoca erano i repubblicani a battersi per l’abolizione; i democratici del Sud avrebbero continuato a favorire la schiavitù, e poi la segregazione razziale, fino ai tempi di un altro Johnson. Goldwater nel 1964 sarebbe stato il primo candidato repubblicano non avversato dal Sud, ma Lyndon Johnson lo avrebbe travolto a livello nazionale, lasciandogli solo il Sud. Quattro anni dopo, con una strategia analoga a quella di Goldwater, Nixon avrebbe guadagnato la Casa Bianca.)
Lincoln, per allargare il proprio consenso, si era associato ad Andrew Johnson. Una volta arrivato alla presidenza, quest’ultimo rivelò le sue intenzioni. Emanò subito ordini esecutivi che decriminalizzavano i cittadini della Confederazione (sudista) i quali giurassero fedeltà all’Unione e nominò governatori degli Stati del Sud uomini che avevano sostenuto la secessione. Come risultato, gli abitanti bianchi di quegli Stati si ritennero autorizzati ad assalire, linciare, torturare e asservire i neri, inclusi quanti avevano prestato servizio come soldati dell’Unione. Gli episodi più atroci si verificarono a Memphis e New Orleans nel maggio e luglio 1866, quando orde di bianchi (fra cui molti poliziotti) massacrarono un centinaio di neri. Johnson dichiarava di non credere ai resoconti dei giornali mentre affermava che «questa è una nazione per uomini bianchi e, per Dio, finché sono presidente sarà un governo per uomini bianchi» e, nei suoi discorsi pubblici, incitava i seguaci a impiccare gli abolizionisti. (Nonostante le raccomandazioni dei suoi consiglieri, non sapeva resistere alla tentazione di straparlare davanti alle folle.)
Se tutto questo suona familiare, lo sarà anche il prossimo passo. Messi alle strette da un presidente che agiva in modo autocratico e riportava indietro l’orologio della Storia, i repubblicani, forti di una maggioranza che si presumeva blindata (nelle elezioni del 1866 avevano acquisito 173 dei 226 seggi alla Camera e 43 dei 54 al Senato) decisero di aprire la procedura di impeachment per Johnson. In The Impeachers, Brenda Wineapple (che insegna alla Columbia ed è autrice, fra l’altro, di una biografia di Hawthorne) ci porta, con grande competenza e verve, a contatto con quegli storici eventi.
Un funzionario federale, secondo l’articolo II della Costituzione americana, può essere impeached (messo in stato d’accusa) per tradimento, corruzione o per high crimes and misdemeanors (gravi crimini e misfatti). Una semplice maggioranza alla Camera è sufficiente per l’impeachment e a quel punto il Senato dovrà giudicare: per una condanna è necessaria una maggioranza di due terzi. Quello di Johnson fu il primo impeachment di un presidente e non si sapeva bene come dovesse svolgersi. Scartati il tradimento e la corruzione, si dovevano dimostrare gravi crimini e misfatti; ma quali? Le motivazioni dell’impeachment erano politiche: Johnson aveva agito nel totale disprezzo della divisione dei poteri, violando o ignorando i responsi del Parlamento, e contro gli interessi di una nazione che aveva combattuto e vinto una guerra sanguinosa. La natura dell’impeachment, però, era legale: occorreva trovare un’effettiva violazione della legge da parte del presidente. Le molteplici indegnità di Johnson erano difficilmente perseguibili, quindi si fu costretti ad arrampicarsi sui vetri.
Un ministro (in America: un segretario) fa parte dell’esecutivo: serve il presidente, è nominato dal presidente ed è confermato dal Senato. Se vuole, il presidente può licenziarlo. Nel 1867 il Parlamento aveva approvato una legge (denominata il «Tenure of Office Act») che richiedeva la conferma del Senato anche per il licenziamento; sarebbe stata abrogata nel 1887 e in seguito giudicata incostituzionale. Il motivo era proteggere il segretario di guerra Edwin Stanton, unico ostacolo al controllo che Johnson esercitava sulle forze armate. Nel 1868 Johnson licenziò Stanton e ben otto degli undici articoli del suo impeachment lo accusavano di questa violazione della legge. Stanton, peraltro, non era stato nominato da lui ma da Lincoln, quindi non era chiaro che il «Tenure of Office Act» gli si applicasse.
Il processo durò mesi e si risolse con un’assoluzione di stretta misura: per una condanna servivano 36 dei 54 voti disponibili e ne arrivarono 35. Alcuni dei voti mancanti furono probabilmente comprati: cacciata dalla porta la politica rientrava dalla finestra, nella sua forma più scellerata ed esecrabile. Rimasto presidente, Johnson continuò a compiere scelte razziste, che furono ribaltate dal successore Grant. La storia, adattando l’espressione usata da Marx nel 1852 (nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte), si era presentata qui come tragedia, sullo sfondo di mezzo milione di morti e un Paese devastato, e si sarebbe ripetuta come farsa, con l’impeachment di Bill Clinton. Né Marx né Hegel (cui Marx fa riferimento in quel passo) ci dicono come si presenta la terza volta. Con il senno di poi, si potrebbe concludere oggi che si presenta con una sintesi davvero hegeliana: farsa e tragedia mostrano la loro sostanziale identità; è proprio quel che c’è di farsesco in un evento a renderlo tragico.