Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2020
Riscoprire le poesie di Massimo Ferretti
La malattia, in tutte le accezioni del termine, è stata uno dei tratti più tipici dell’arte moderna. Specie nei poeti, l’atto stesso di scrivere ha assunto una connotazione patologica, divenendo il segno di un rifiuto della società (genitivo sia soggettivo che oggettivo). Dopo Baudelaire, c’è chi l’ha testimoniato attraverso una rivolta bruciata in poche stagioni, e chi invece attraverso l’esibizione di un’ipercoscienza crepuscolare, destinata a constatare impotente che tutto è già avvenuto. Ma c’è anche chi ha vissuto la malattia dell’esistenza e della scrittura con la vitalità dei sani. Un caso eccentrico, ai limiti estremi dell’eccentrica modernità italiana, è quello di Massimo Ferretti, nato nel 1935 e morto nel 1974 a soli trentanove anni, come il suo conterraneo Leopardi, dopo un’apparente rinuncia rimbaudiana alla letteratura in nome del commercio. Ferretti soffriva fin da bambino di endocardite reumatica, e il cuore, un cuore scherzosamente e macabramente surreale, gioca una parte importante nella sua opera. «È un tappeto verde / dove la vittoria è una storia / raccontata da uno che perde»: così lo definisce in Allergia, la raccolta premiata nel ’63 col Viareggio e ristampata oggi da Giometti e Antonello. Secondo Pasolini, a cui Ferretti per un periodo fu vicino, pur non comunicando «niente altro che la propria presenza evidenziata dal male», il giovane poeta «produce i versi più intimamente gioiosi e vitali degli ultimi anni». Il loro sapore speciale dipende dal fatto che se le atmosfere sono crepuscolari, il pathos guascone è il contrario delle maschere di senilità precoce. Come nel primo Pagliarani e nel primo Manacorda, altro poeta allergico tenuto a battesimo da PPP., in Ferretti il rifiuto fa tutt’uno con la voracità: e lo prova già il poemetto d’apertura, con quel mito tragico-goliardico di Deoso che ricorda il Baal brechtiano. L’approssimazione formale riflette gli azzardi di un ragazzo costretto a vivere in regime provvisorio. Per saggiarne la grazia un po’ grezza e manesca basta leggere una pagina qualsiasi di quei suoi endecasillabi da ballata che procedono come vagoni agganciati alla meglio, troncati, allungati e a volte redenti dallo stacco di una clausola memorabile; o basta perdersi nelle prose liriche, che riconducono l’eredità dell’espressionismo primonovecentesco a uno stato di anarchia fantastica, ebbra e ironica singolarmente affine agli archetipi francesi. Ferretti ha poi rinnegato lo sperimentalismo di «Officina» per l’antiromanzo neoavanguardista: e scorrendo i documenti in appendice a questa riedizione si può vedere come il cambiamento di poetica trovi un perfetto equivalente nel salto dal linguaggio libero, tenero e crudele del carteggio con Pasolini al gergo fenomenologico involuto e privo di humour del carteggio con Antonio Porta. Stretti tra i ricatti culturalistici, lungo gli anni Sessanta anche i talenti più selvaggi vollero dimostrare di avere le carte teoriche in regola. Il Ferretti vivo, però, rimane quello del Bildungsroman di Allergia, col suo paesaggio marchigiano fotografato tra il dopoguerra e il boom, con le sue pensioni e le sue trattorie, i suoi amori dongiovanneschi e il suo estro di studente. «Il mio complesso è una tragedia antica: / devo scrivere e vorrei ballare» dice il finale di una delle sue poesie più belle. È un modo felice per rappresentare la frattura patologica a cui si accennava, così felice che quasi la smentisce: questi due versi pieni di energia non sembrano una danza?