Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2020
Storia del gin
Un pizzico di pepe di Giava, uno di cannella cinese, un’oncia di grani del paradiso, una di semi di coriandolo, qualche mandorla della Murcia, un po’ di radice di giaggiolo, altrettanta di angelica, un bastoncino di liquirizia, la scorza di un limone e abbondanti bacche di ginepro. Il tutto infuso in acquavite di cereali, distillato in alambicchi di rame e conservato in bottiglie rigorosamente blu. Sebbene porti il nome dello zaffiro stellato dello Sri Lanka che Douglas Fairbanks donò a Mary Pickford, non si tratta di una pozione d’amore né di un elisir di bellezza. Può forse facilitare un corteggiamento o far apparire il mondo più luccicante, ma è solo la ricetta di uno dei gin più famosi e venduti del mondo: il Bombay Sapphire.
La sua distilleria si trova nello Hampshire, a metà strada tra Overton e Withchurch, nell’area in cui sorgeva un antico mulino (Laverstoke Mill) trasformato in cartiera nel 1718. Dopo aver stampato sterline britanniche e rupie indiane per oltre due secoli, nel 2010 il complesso, da tempo abbandonato, è stato acquistato dalla Bombay Spirits Ltd. che ne ha affidato il progetto di ristrutturazione allo studio del designer Thomas Heatherwick.
Ultimata nel 2014 e censita da Dan Barasch nel suo splendido Ruin and Redemption in Architecture (2019), la distilleria Bombay Sapphire è uno degli esempi di riconversione più efficaci e suggestivi realizzati negli ultimi anni. Più efficace perché, pur ispirandosi a princìpi di ferrea sostenibilità, è in grado di produrre quasi 70mila litri di gin al giorno. Più suggestivo perché Heatherwick ha creato una vera e propria metafora architettonica del processo di distillazione.
Il centro del complesso è occupato da un ampio cortile sul quale affacciano gli edifici adibiti alla produzione. Dalla facciata del più antico sgorgano due cascate di vetro e acciaio che, ricadendo sulla riva del fiume Test, formano una coppia di serre – una tropicale e una mediterranea –, al cui interno sono coltivate le dieci piante utilizzate per la preparazione del gin. Questa affascinante struttura, dalla funzione prettamente estetica, allude alla peculiare distillazione del Bombay Sapphire che, a differenza di quella di altri gin, si basa sull’infusione a vapore delle erbe e delle spezie. Ma è anche, in senso più ampio, la celebrazione artistica di una bevanda che dall’inizio del nuovo millennio sta vivendo un impetuoso rinascimento.
La parabola del gin in Inghilterra, infatti, è assai più accidentata di quanto la sua consacrazione presente possa far credere. Lo importò dall’Olanda Guglielmo III d’Orange nel 1689, quando, senza colpo ferire, spodestò dal trono d’Inghilterra un monarca filofrancese con due imperdonabili difetti: essere cattolico e amare il brandy.
Una volta al potere, il nuovo sovrano proibì l’importazione di acquavite dal regno di Francia e ne liberalizzò la produzione nel proprio. Nel giro di quarant’anni le distillerie di gin, per lo più di infima qualità, si decuplicarono e con esse i loro clienti, appartenenti soprattutto alle classi popolari. Ebbe inizio allora un periodo noto come Gin Craze, durante il quale il consumo di questo distillato si diffuse a tal punto da indurre alcuni storici, come Jessica Warner (Craze. Gin and Debauchery in an Age of Reason, 2002), a paragonarlo all’epidemia di crack che flagellò New York negli anni 80 del secolo scorso.
Uno dei documenti più famosi di quell’epoca è un’incisione satirica di William Hogarth raffigurante una scena di ordinaria ubriachezza in una fittizia strada di Londra chiamata Gin Lane (1751): uno scellerato baccanale a base di gin in cui uomini e donne dagli sguardi perduti commettono crimini e misfatti d’ogni sorta, mentre una statua di San Giorgio li osserva e li giudica dalla cima di un campanile di Bloomsbury.
Non senza fatica, il Parlamento inglese pose rimedio a questa epidemia emanando, tra il 1729 e il 1751, otto leggi sul gin (gin acts) che ne tassavano la produzione e la vendita in modo spropositato.
Nel frattempo la nuova bevanda era salpata verso i quattro angoli dell’impero sulle navi della Marina militare e della Compagnia delle Indie orientali, per tornare in patria, alcuni decenni dopo, sotto forma di cocktail. Ufficiali e marinai avevano infatti scoperto che essa si prestava perfettamente ad addolcire le medicine. Contro il mal di mare? Gin e angostura, ovvero un Pink Gin. Contro lo scorbuto? Gin e succo di lime, vale a dire un Gimlet. Contro la malaria? Gin e chinino, anche detto Gin and Tonic. Parafrasando il motto di una rinomata governante vittoriana: «a spoonful of gin helps the medicine go down».
A onor del vero, la culla dei cocktail non fu l’Inghilterra, ma l’America. Mentre nella Londra di metà 800 il gin ritornava in auge in una versione secca e aromatica più adatta ai palati della nascente borghesia, a New York si compivano esperimenti di mixology che avrebbero portato all’invenzione di miscele iconiche come il Martini Dry. Paradossalmente, il trionfo americano del gin si ebbe però solo con l’avvento del proibizionismo, quando negli speakeasy di mezzo continente fece furore in coppia con un altro magico monosillabo: jazz. E dagli Stati Uniti rientrò in Gran Bretagna con più glamour di prima.
Per un breve periodo la vodka, gelida e inodore, riuscì a strappargli lo scettro, ma il lancio sul mercato del Bombay Sapphire nel 1987 e in seguito quello di altre tipologie sempre più innovative nell’uso delle erbe e nel modo di distillarle, gli restituirono centralità nella galassia dei drink. E qui ritorniamo al suo successo presente, soprattutto nel Regno Unito, dove le vendite annue si aggirano attorno ai 2 bilioni di sterline. Dopo aver attraversato i secoli, percorso gli oceani e oltrepassato i confini sociali, il gin è infatti diventato oggetto di una vera e propria religione laica, con i suoi santuari (gin bar), i suoi pellegrinaggi (gin tour) e le sue festività (gin festival).
Chissà cosa direbbe oggi il proprietario del Rick’s Café di Casablanca, se già nel 1941 aveva borbottato incredulo: «Con tanti locali di gin disseminati nel mondo, doveva entrare proprio nel mio», prima di chiedere a Sam di suonare ancora una volta As time goes by.