«Il carcere rispecchi il volto costituzionale della pena e dia al detenuto una seconda chance».
«Partendo dal luogo più remoto della società, qual è appunto il carcere, la Corte sta portando la Costituzione ovunque. Perché la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società». Tutto questo dice a Repubblica , nella sua prima intervista, la presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia.
Presidente buongiorno. Appena l’altro ieri è stata depositata alla Corte l’ultima sentenza che la vede come relatrice. Dopo non ce ne saranno altre a sua firma. Riguarda le detenute madri di figli gravemente disabili che potranno scontare la pena anche a casa.
Perché ha voluto scriverla?
«Non abbiamo voluto rinviarla perché riguardava la vita in concreto di due persone. Oltre che la madre reclusa, n’era coinvolta anche la figlia disabile, incolpevole.
Ci si pensa raramente ma, in casi come questo, la pena è sì inflitta al condannato, ma ricade anche sulle persone vicine. L’ordinamento prevede strumenti – com’è la detenzione domiciliare – che, senza fare sconti, permettono di eseguire la pena con modalità che tengono conto delle persone innocenti bisognose di assistenza, ovviamente quando le esigenze della sicurezza lo consentono. Il magistrato di sorveglianza di certo non concederà la detenzione domiciliare a un detenuto pericoloso».
Cos’ha fatto la Corte?
«Ha semplicemente detto che quando il figlio della madre detenuta è affetto da grave disabilità non conta l’età anagrafica, e quindi la detenzione domiciliare può essere concessa anche oltre l’età di dieci anni. Per le persone più fragili la vicinanza di quelle più prossime fa una grande differenza».
Lei sta parlando di una giustizia dal volto umano.
«La giustizia deve sempre esprimere un volto umano: ciò significa anzitutto – come dice l’articolo 27 della Costituzione – che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità; ma anche che la giustizia deve essere capace di tenere conto e bilanciare le esigenze di tutti: la sicurezza sociale, il bisogno di giustizia delle vittime e lo scopo ultimo della pena che è quello di recuperare, riappacificare, permettere di ricominciare anche a chi ha sbagliato».
Torna di nuovo il trinomio Corte costituzionale-carcere- diritti dei più deboli, divenuto ormai un leit motiv per la sua istituzione negli ultimi due anni grazie al “Viaggio in Italia”, i giudici costituzionali nelle carceri. C’è un collegamento tra il Viaggio e le sentenze?
«La Corte si è sempre occupata della condizione dei detenuti e in quest’ultima decisione vengono sviluppati alcuni principi già espressi in un caso analogo nel 2003. Certamente entrare negli istituti di pena ha permesso a noi giudici di comprendere e conoscere meglio la realtà del carcere. Mentre scrivevo quest’ultima sentenza avevo negli occhi il volto, e nelle orecchie le parole di una madre detenuta a Lecce, alla quale era stata negata la detenzione domiciliare perché la figlia aveva superato i dieci anni di età. Nel docufilm, questa donna si rivolgeva alla giudice de Pretis dicendo: “Signor giudice l’età non vuol dire nulla, perché la mia bambina è disabile e non sa nemmeno lavarsi le manine da sola”. Come darle torto? Come negare che la disabilità prolunga il bisogno del rapporto quotidiano con la madre?».
Vita vissuta, soprattutto quella di chi è ai margini della società, chi viene da un altro Paese, ha commesso un grave delitto, ma s’impegna in un percorso di risocializzazione. La Corte ritiene che questo percorso sia fedele alla Costituzione?
«Certamente, ma la Corte opera con gli strumenti che le sono propri e nei limiti che sono imposti al suo agire: giudicando le leggi, eliminando gli ostacoli incostituzionali all’effettivo reinserimento sociale di chi in carcere ha davvero colto l’opportunità di una seconda chance. Ma, mi creda, questo è un compito corale».
In che senso mi scusi?
«La Corte fa la sua parte, ma occorre l’azione responsabile e convinta di molti: il legislatore, i giudici, la polizia e l’amministrazione penitenziaria, i servizi sociali, le associazioni di volontariato. E talvolta ci sono storie meravigliose che nascono dal coinvolgimento di tutti, come la storia di Liz, una ragazza dominicana che si è lasciata invischiare nel traffico di stupefacenti. Dopo un percorso travagliatissimo, ormai maggiorenne, il suo tenace cammino di rinascita rischiava di essere interrotto dall’espulsione una volta uscita dal carcere. Di questo paradosso Liz, nel film, chiede conto al giudice Amato e dice: “Non mi sembra giusto che uno straniero che ha fatto un percorso in carcere e vuole integrarsi nella società venga espulso”. Anche grazie al viaggio e al film, con l’intervento di molti, questa storia ha avuto un lieto fine, dando a Liz una concreta speranza di vita in Italia».
È fresca di polemica politica l’ultima decisione che la Corte ha assunto mercoledì sulla legge Spazzacorrotti. Qualcuno ha parlato di legge bocciata, altri hanno accusato la Corte di far uscire dalle prigioni i delinquenti. Qual era il vostro obiettivo?
«Guardi, qui la Corte ha semplicemente applicato uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica in materia penale che vieta l’applicazione delle leggi più severe ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore. La Spazzacorrotti ha inasprito il regime penitenziario per i reati contro la pubblica amministrazione, assimilandoli a quelli di criminalità organizzata e terrorismo, ed è stata applicata anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore».
Un errore quest’ultimo?
«La nostra decisione ha colpito non la legge, ma la sua interpretazione retroattiva, con una sentenza che tecnicamente definiamo “interpretativa di accoglimento”. La legge di per sé non disponeva l’applicazione retroattiva, ma nemmeno la escludeva, non avendo previsto nessuna disciplina transitoria per i fatti pregressi. Si tratta comunque di una decisione che introduce un’importante innovazione perché chiarisce che il divieto di retroattività delle leggi penali riguarda anche quei cambiamenti nel regime penitenziario che comportano una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato».
L’impressione è che la Corte stia segnando un cammino sui diritti del tutto nuovo, una Costituzione mite, quindi una legge mite, che “mette alla prova”, non butta la chiave. È così?
«È da molti anni che la Corte sta lavorando perché il carcere rispecchi “il volto costituzionale della pena”, come disse in una sentenza del 1980. L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non solo di carcere, che deve tendere alla rieducazione del condannato: dare una seconda chance. Negli anni più recenti la Corte sta sviluppando in particolare tre principi: proporzionalità, flessibilità della pena, individualizzazione. La proporzionalità è contro le pene eccessive, l’individualizzazione è contro le pene fisse, la flessibilità è contro le pene che non possono essere modificate nel corso dell’esecuzione».
Mercoledì, a Catanzaro, con le toghe dell’Anm, lei presenterà di nuovo il film sul Viaggio della Corte nelle carceri. È almeno la quindicesima volta che lo vede, oltre essere stata protagonista del dibattito con i detenuti a San Vittore. Cosa vuole trasmettere la Corte con quel film e cosa vuol dire agli italiani?
«Pensi che ci sono state ben 36 proiezioni in Italia e all’estero e già ne sono fissate altre 21, nei cinema, nei tribunali, negli auditori, nelle carceri, nei luoghi di cultura, nelle scuole per citare solo quelle alle quali la Corte ha partecipato, quindi si può dire che partendo dal luogo più remoto della società – qual è il carcere – la Corte sta parlando a tutti, ovunque, e sta portando la Costituzione a tutti, ovunque. Del resto, la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società: il dovere, e la responsabilità della nostra Corte, è custodire e al tempo stesso promuovere quei valori, farli ritrovare a chi li ha smarriti, tenerne viva la coscienza, diffonderne la conoscenza tra le più giovani generazioni. Un compito, peraltro, a cui tutti devono concorrere, con modalità diverse, anche l’informazione».
Glielo chiedo, ma non interrompa questa nostra intervista: è una Corte di sinistra o di destra, secondo una distinzione tranchant che piace alla politica,quella che incontra i detenuti, che sente la voce degli ultimi e la riporta dentro la Corte stessa per trasformarla in diritti di carta, traducendo i principi della Costituzione?
«La ringrazio di questa domanda perché mi permette di fare una precisazione importante. La Corte non è un attore politico e non ha un programma politico da realizzare.
La sua azione non può essere compresa attraverso chiavi di lettura di tipo politico, come la contrapposizione “destra-sinistra”.
Non bisogna mai dimenticare la grande distinzione tra istituzioni politiche e istituzioni di garanzia. Il Parlamento e il governo sono istituzioni politiche. Il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e i giudici sono organi di garanzia, cioè arbitri. La Corte costituzionale deve vigilare che le decisioni degli attori politici rispettino sempre gli argini segnati dai principi costituzionali. E per farlo, talvolta deve “bocciare” – come si dice in gergo giornalistico – una legge, un referendum, o altri atti dei pubblici poteri. La Corte non agisce mai come l’avversario politico di una parte. La Corte è garante della Costituzione, che è la casa comune di tutti, come diceva Giorgio La Pira».
Immagino che lei non possa rispondere a una domanda su temi su cui la Corte potrebbe doversi pronunciare, come la prescrizione.
Ma c’è una questione che da decenni ormai tormenta il dibattito non solo politico, ma scuote la vita dei cittadini: i tempi della giustizia. Le chiedo: è una giustizia giusta quella che impiega anni per emettere una sentenza di condanna o di assoluzione?
«È evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere. Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal ‘99. Sono molti i fattori che concorrono alla lunga durata del processo, alcuni di natura organizzativa, altri legati alla necessità di accuratezza delle prove e alle garanzie per l’imputato.
Perciò, risolvere questo problema richiede un’azione su vari fronti e certamente una riflessione pacata di tutti, al di là di ogni steccato ideologico. Ma, a proposito di giustizia giusta, mi lasci aggiungere un’ultima considerazione».
Mi dica.
«Una giustizia giusta, se vogliamo usare quest’espressione, è una giustizia che permette di guardare al futuro, che non si pietrifica su fatti passati che pure sono indelebili. La giustizia giusta è riconciliazione, non vendetta.
Perché la giustizia vendicativa – ce lo insegna la tragedia greca, in particolare l’Orestea di Eschilo – distrugge insieme gli individui e la polis, mentre una giustizia riconciliativa realizza l’armonia sociale. Come insegna la storia di Liz, senza cancellare nulla, bisogna che sia possibile aprire una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità».