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 2020  febbraio 16 Domenica calendario

La stanza come opera d’arte

Una donna elegante si appoggia alla enorme parete di vetro della sua casa divisa in grandi quadrati con profili che geometricamente tagliano lo spazio esterno: regge in mano un piccolo libro, davanti a sé una infinita distesa di piante in un orizzonte che squadra il cielo ma le regala l’illusione e la certezza della comunione con l’infinito. È una immagine intensa, e intensamente moderna: rivendica una possibilità di vita, nella quale la casa si protende verso l’esterno, in un labile confine che esprime armonia, rilassatezza, qualità. Diversità e futuro. È Lina Bo Bardi e siamo nel 1953: la Casa de Vidro a San Paolo del Brasile cerca di rispettare l’ordine delle cose e ci riesce con apparente facilità. Non poteva che essere questa la copertina del catalogo (e l’immagine stessa dunque) di un mostra che vuole esaminare con 20 progetti visionari un secolo di “filosofia dell’arredamento”, avrebbe detto qualcuno che di questa filosofia se ne intendeva eccome, ma, di più, esplorare il modo in cui abbiamo vissuto. Cioè il modo in cui ci siamo percepiti.
“Home Stories. 100 Years 20 Visionary Interiors”, fino al 23 agosto al Vitra Museum di Weil am Rhein, attaccato a Basilea (uno dei più bei musei di design del mondo), è un grande racconto che ci conduce a ritroso nel tempo e va a rivedere – e a “ripensare” – cosa ha voluto dire “abitare” in un secolo di tentativi, visioni, progetti, utopie e idee, slanci e costrizioni. Organizzata in quattro grandi aree tematiche, «Home stories» prova a evidenziare i cambiamenti sociali, urbani e tecnici che hanno modellato il design e gli spazi interni (almeno in occidente). E perciò, dopo averla vista (o anche semplicemente scorso il catalogo, fatto benissimo: e la sola timeline, molto efficace, ne giustificherebbe l’acquisto) si può ragionevolmente affermare che “siamo quello che abitiamo”. In apertura di catalogo un pregevole scritto di un designer-star come Jasper Morrison. «Ho un’idea di ciò che fa un buon oggetto» esordisce, «ma costruire una buona stanza è molto più complesso. Un oggetto ha una presenza che contribuisce all’atmosfera di uno spazio, mentre una stanza si sviluppa oltre la sua architettura, dalla selezione, combinazione e posizionamento di quegli oggetti». Già questa opposizione fra oggetti e “architettura dello spazio”, in senso più lato, è decisiva e coglie bene la difficoltà di comprendere un insieme che sia armonico, elegante, d’impatto o rassicurante. E, infatti, lo stesso Morrison ammette che «gli interiors eccezionali sono molto più rari degli oggetti e poche persone sono in grado di realizzarli».
La carrellata della mostra consente di concordare nel giudizio, anche se l’esposizione è appunto costruita per qualificare alcuni spunti eccezionali (ovviamente per me resta quasi imbattibile una creazione come la casa di Finn Juhl del 1941, ma è questione di gusti, mentre non capirò mai l’ostinazione con la quale Karl Lagerfeld si fece arredare la casa di Montecarlo in total Memphis) con altri che servono proprio a far capire come si è evoluto il nostro rapporto tra spazio, vivibilità, oggetti e possibilità. Per dire: la prima sezione della mostra «Space, Economy and Atmosphere: 2000 -Today» porta esempi di interni contemporanei sviluppati per esigenze del nostro tempo: la carenza di spazi abitativi a prezzi decenti, l’economia della condivisione.Ecco: è chiaro che queste risposte non hanno nulla a che fare con la irreversibile magniloquenza della Ashcombe House di Cecil Beaton (ma che adorabile posto: del tutto congruente al personaggio) o ad altri esempi similari. Certo è una rassegna dei migliori ingegni che hanno affrontato il tema, e ciascuno si ritaglierà i propri preferiti (per me, per esempio, Josef Frank è tra i grandissimi: qui è citato abbastanza poco). E, come non viene sottovalutata l’irruzione di Ikea nelle nostre vite (ha cambiato il modo in cui si percepiscono i mobili: da oggetti da tramandare di generazione in generazione a prodotti di consumo di più breve durata, ma con una loro forte identità estetica), ci sono pur sempre progetti, case, e personaggi bellissimi e persino irraggiungibili. È il sogno della “casa bella” (non a caso il titolo di una rivista storica) nella quale rispecchiarsi; perché sì gli oggetti parlano di noi e le case sono il nostro ritratto esterno. Al di là delle possibilità di ciascuno, è una questione di sensibilità, di gusto, di vita armonica con ciò che ci circonda. Che poi, ciò che ci circonda, non siamo altro che noi, sotto altre spoglie. Lina Bo Bardi lo sapeva.