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 2020  febbraio 16 Domenica calendario

Pro e contro l’Ulisse di Joyce

Poche storie sono state riscritte, interpretate, rilette come quella dell’Odissea. Anche perché, come ci ha spiegato Italo Calvino, dentro l’Odissea ce ne sono tante altre. La Telemachia, per esempio, cioè il viaggio di Telemaco alla ricerca della sorte del padre. Oppure le bugie dell’eroe e le donne che lo hanno aiutato a raccontarle. È una struttura al tempo stesso elegante e complessa, archetipica e moderna. Ecco perché il poema omerico ha dato vita alle opere più controverse dei tempi recenti, a cominciare dall’Ulisse di James Joyce. Uno dei pochi libri del Novecento per i quali si accostano le definizioni di capolavoro e mare di noia. Qualche anno fa era stato Paulo Coelho – autore di best seller come L’alchimista, di certo molto distanti dalla prosa di Joyce – che aveva sentenziato: «Non c’è nulla, lì dentro». Cancellando di colpo la bellezza ostica delle peregrinazioni di Dedalus, Molly e di tutti gli altri, concentrate a Dublino fra le otto del 16 giugno 1904 e le prime ore del mattino seguente.
Il Guardian aveva prontamente replicato definendo l’opera di Coelho «meno intellettualmente profonda di un camembert». Ma che cosa ribattere a una Virginia Woolf che, scrivendo del romanzo di Joyce, argomenta così? «Mi ha interdetto, annoiato, irritato e disilluso, come di fronte a un disgustoso studente universitario che si schiaccia i brufoli». La scrittrice annota poi: «Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario. Uno scrittore di classe, voglio dire, rispetta troppo la scrittura per ammettere le trovate, le sorprese, le bravure. Mi ricorda continuamente un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma talmente conscio di sé, talmente egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, desta pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia». Da una parte T.S. Eliot, per il quale l’opera di Joyce è «l’espressione più importante dell’era presente» e, dall’altra, Roddy Doyle, che parla di un libro «Troppo lungo, sopravvalutato, non emozionante».
Chi lo sostiene
Eliot era un caposaldo della modernità. Arbasino se la prese con la traduzione
Uno dei nodi di questa bizzarra sospensione tra capolavoro e mare di noia è la voluta incomprensibilità del testo e delle situazioni. Moderna secondo alcuni, presuntuosa secondo altri. E vale la pena ricordare una lunga e dettagliata polemica che prese vita proprio sulle pagine del «Corriere della Sera» quando, nel 1994, lo scrittore Raffaele La Capria confessò di aver letto l’Ulisse due volte e di averlo sempre trovato «indigesto e prolisso». Gli risposero, tra gli altri, Gramigna e Pressburger, manco a dirlo prendendo le difese dell’irlandese. Ma, come spesso accade da noi, le parole più brillanti le trovò Alberto Arbasino, il quale diede la colpa, si fa per dire, alla traduzione italiana: un po’ come se in Irlanda dovessero tradurre Eduardo de Filippo.