la Repubblica, 16 febbraio 2020
La storia del Casale + una poesia
La mia inutile solidarietà a Maurizio Sarri, non per l’infittimento dei voli sopra la sua testa, da Allegri a Guardiola, fa parte del mestiere, ma perché ha preso bacchettate sulle dita anche dalle Poste. E nemmeno se le è andate a cercare. Aveva risposto, sulla precarietà del suo lavoro: «Se non volevo essere sotto esame lavoravo alle Poste». Risposto, posto alle Poste, sembra un gioco di parole. Garantisco la sua involontarietà. Non mi pare ci fosse niente di offensivo nella risposta di Sarri, che va vista nell’ottica di almeno quarant’anni anni fa, quando un posto alle Poste (o al Catasto, o nelle banche), sembrava un Eldorado, una garanzia di stabilità e di durata. Senza sottintendere che si trattava di covi di fannulloni, insomma. E gli esami c’erano, sicuro: se uno rubava, lo licenziavano. Se era il direttore della banca, un po’ meno, a volte lo promuovevano. Le Poste hanno risposto su Twitter in maniera piccata (al limone) invitando Sarri a impiegare un po’ del suo prezioso tempo per documentarsi sulla più grande azienda del nostro Paese, che sta addirittura al terzo posto nel mondo per immagine e dove si è costantemente sotto esame. L a mia inutile (6,5) solidarietà a Sarri nasce dal fatto che questo episodio mi ha fatto capire per chi suona la campana. Per lui, ma anche per me. Dovrò stare attento, è il segnale che le battute ormai si possono fare solo su un campo (tennis, volley) ma fuori si rischia. Qualche esempio. Quand’ero un giovane cronista, si usavano espressioni quasi tutte finite in un baule, in soffitta: la barba al palo, la metà campo da vendere, il triplice fischio finale, le bandiere che garriscono al vento, gli spalti gremiti. E meno male che ci sono finite. Ma si usavano altri luoghi comuni, tipo: “L’Atalanta ha perso, ma con la Juve, mica col Peretola”. Non si sa perché, Peretola. L’alternativa era Canicattì, anche qui non si sa perché. Oggi conviene evitare di dirlo e di scriverlo. Ti twitterebbero contro l’assessore allo sport di Peretola (o di Canicattì), l’assessore alla cultura di Canicattì (o di Peretola), forse i sindaci, sicuramente molti cittadini indignati di Peretola (o di Canicattì). Evitare anche, a proposito di un gioco sparagnino, riferimenti ai genovesi e pure agli scozzesi, non si sa mai. Non sottovalutare la suscettibilità dei turchi (non tutti, Erdogan di sicuro): “fumare come un turco”, se ne può fare a meno. Di uno che beve molto, quale paragone: come un’oca o come un alpino? Come vi pare. Le oche non twittano e forse nemmeno leggono i giornali. Gli alpini sì, ma sono brava gente (9) che non ha tempo per queste scemenze. I l tempo di dare un voto a Giulini e al Cagliari: 8. Dopo indagine interna, espulsione a vita per tre tifosi responsabili di frasi razziste e discriminatorie. Bravi, anche perché il Cagliari è stato, e cerca di continuare ad essere, més que un club. Rappresenta una regione intera. E adesso un salto dalla Serie A alla Serie D, girone A. Si va a Casale Monferrato. Con Alessandria, Pro Vercelli e Novara formava il famoso Quadrilatero, vertice del nostro calcio nel primo ventennio del secolo scorso. Fu fondato nel dicembre 1909, vinse lo scudetto nel 1914 (7-1 e 2-0 alla Lazio). Fu la prima squadra italiana a batterne una inglese, 2-1 al Reading il 14 maggio 1913. Il Reading, mica il Peretola o il Canicattì, avrei scritto una volta. Il Reading che in quella tournée sconfisse il Genoa, il Milan e anche la Nazionale. Lo fondarono Raffaele Jaffe e alcuni suoi studenti dell’Istituto tecnico Leardi. Scelsero la maglia nera, in opposizione a quella bianca della Pro. Ci servirà una buona stella, disse uno dei giocatori prima che cominciasse l’avventura. «La metteremo sulla maglia» disse Jaffe, che fu anche il primo presidente. E così il calciatore-socio fondatore Luigi Cavasonza ritagliò nella carta undici stelle bianche a cinque punte che furono incollate all’altezza del cuore. J affe era ebreo. Sposò una ragazza cattolica, si convertì, fu battezzato ben prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali. Cosa che non fermò il suo trasferimento, l’internamento al campo di Fossoli, dove conobbe Primo Levi e restò circa cinque mesi. Per la legge italiana non poteva essere deportato, per quella tedesca sì. Il 6 agosto ’44 sale sul treno per Auschwitz, quando arriva è giudicato vecchio e inutile, utile solo per essere un numero in più nel genocidio. L’8 agosto gli dicono che bisogna fare una doccia ed entra nel forno. Un lettore nato a Casale, ebreo, dai primi di novembre ha scritto al Casale chiedendo se si poteva ricordare Jaffe con una stella gialla al posto di quella bianca. Mi documenta le risposte ai suoi messaggi dell’11 novembre: le faremo sapere. Del 21 e del 26, nulla. Del 2 dicembre: non ci sono i tempi per le maglie nuove, forse per la Giornata della memoria. Bene, dice lui, e scrive il 28: nessuna risposta. L’8 gennaio: nessuna novità, la terremo informata. Il 7 febbraio il lettore capisce che la maglia non si farà e suggerisce di consegnare al capitano avversario il libro Presidenti di Massimiliano Castellani e Adam Smulevich, che scrivono anche di Jaffe. Al 15 febbraio, nessuna risposta. Volendo, sarebbe bastato fare come Cavasonza: carta gialla e una forbice. Volendo. A ngolo della poesia. “Regali di Natale” di Vivian Lamarque: “Per Natale ti faccio i seguenti regali due punti/caramelle svizzere per quando hai la tosse forte da far paura/che non mangerai mai/filtri per quando fumi che butterai dalla finestra/un bicchiere piccolo per bere di meno figuriamoci/dei gettoni per telefonarmi una sera da un bar/una bugia di terracotta per quando avremo buio/una piccola spada perché sei il mio amore pericoloso/e poi anche un pezzetto di me quale vuoi?”.