la Repubblica, 16 febbraio 2020
L’impazienza di Sarri
Viviamo nell’epoca dell’impazienza, del desiderio frenetico, del giudizio sommario e il suo simbolo è lo sfasato allenatore della Juventus, Maurizio Sarri. Alla vigilia di un altrimenti innocuo scontro con il Brescia la sua contestata figura riflette la schizofrenia del tempo. Reduci da cinque scudetti, quattro coppe Italia e due finali Champions sotto la gestione di Massimiliano Allegri, dirigenti e tifosi si sono sentiti come quel bambino di una vecchia pubblicità, che alla mamma in uscita per la spesa chiedeva: «Qualcosa di nuovo, un gioco e del cioccolato». La sorpresa (non la prima scelta) è stata, appunto, Maurizio Sarri, probabilmente l’ovetto più incompatibile con il guscio in cui veniva inserito. Un ex rivale che si era dichiarato allergico alle strisce e alle cravatte, ai calendari e alla diplomazia. Invece del trapianto di un cuore, quello di un sentimento. Senza nessuna concessione. «Vorrei che tu, Cristiano, ti spostassi al centro». No, grazie. «Vorrei che questi due me li sostituiste con...». Non si può. Gli ingredienti, va detto, erano sontuosi, ma ci sono cuochi capaci di mescolare quelli e ogni altro, come Allegri, e altri che hanno bisogno di andare al mercato e scegliere, combinando fiori e carciofi, come Sarri. Nonostante questo, se il mondo e il calcio finissero ora sarebbe in testa al campionato (avendo vinto lo scontro diretto con l’Inter), favorito per raggiungere la finale di Coppa Italia, lanciato in Champions, dove l’attende un ottavo sulla carta agevole. Eppure circolano i nomi dei suoi successori (Guardiola che già lo precedeva in un sogno di mezza estate e Simone Inzaghi che l’ha battuto due volte), ricompare l’hashtag # sarriout che lo perseguitò al Chelsea, ma gli portò fortuna facendogli vincere poi l’Europa League. Perché dunque non si ha pazienza con Sarri? Dire che abbia tradito le aspettative sul nuovo e sul gioco sarebbe la risposta del bambino impaziente. Non fosse che la giuria è composta da suoi simili. Il metro di giudizio è diventato un cronometro incapace di attese. Ci sono incarichi-fiammifero: il tempo di uscire dalla scatola, farsi una passeggiata sul tappeto rosso incandescente e si viene bruciati. Uno viene nominato direttore generale della Rai, gli viene chiesto di cambiare tutto, svoltare secolo, ma soprattutto, affrancarsi dai partiti. E il giorno dopo i partiti gli presentano l’agenda, l’organigramma e gli propongono la scelta tra la poltrona e la finestra. Un altro addirittura tenta di mettere insieme governi raccogliticci, il primo lo trova di qua, il secondo di là, prova a muoversi e c’è subito uno che gli urla, come un caporale di giornata: «Passo! Cambio di passo!». Si può non simpatizzare per nessuno di questi incaricati, ma non si può non empatizzare con la loro umana tragicommedia. Aprono bocca e già il loggione fischia. È un destino universale: i critici televisivi emettono il loro verdetto dopo la prima puntata di un programma, quelli letterari a pagina 50, tutti abbiamo con i casi della vita uno speed date, uno di quegli appuntamenti seriali in cui hai tre minuti per riconoscere l’anello giusto in una catena di incontri sbrigativi. In una ricerca dell’Università Bocconi di qualche anno fa venne fuori che il tempo medio di valutazione di un sito da parte di un utente di Internet era di 8 secondi. Da allora si sarà probabilmente dimezzato, come dai tre minuti degli speed date si è passati ai pochi secondi dello sfogliatore di Tinder, l’app per incontri. Il giornalista canadese Malcolm Gladwell ha dedicato un saggio alla capacità di capire “in un batter di ciglia” quel che abbiamo davanti o che ci aspetta. A Vic Braden, allenatore di tennis, bastava vedere la palla lanciata in aria al servizio per pronosticare l’imminente doppio fallo. Un istinto figlio dell’esperienza che Gladwell chiama “il potere di pensare senza pensarci”. I più si limitano a dar voce all’insofferenza del bambino che aspetta la mamma di ritorno dalla spesa. Hanno megafoni come Matteo Renzi o Lele Adani. I loro bersagli sono potenzialmente infiniti. Accolgono con entusiasmo le novità, le apparecchiano, le divorano e dopo poco le giudicano indigeste, sovraesposte, invadenti: è successo alle sardine e succederà a Elly Schlein, è accaduto a Maurizio Sarri e accadrà a chi verrà dopo di lui. Due pareggi e anche Guardiola diventerebbe una promessa tradita. Il mister nel mirino si trasforma in monsieur Malaussène, il capro espiatorio che subisce ogni accusa: qualunque cosa dica verrà usata contro di lui. Che una battuta veniale sulle Poste generi, anziché qualche replica nello stanzone dei portalettere, una reazione ufficiale, dimostra che si è perso il senso della misura. E la misura di ogni cosa è il tempo, non più concesso a nessuno. Lo dice Alena Seredova, che di legami spezzati in casa bianconera ha esperienza: «Oggi si arriva alla separazione troppo velocemente». Disamore a prima svista. Non si ha pazienza neppure con se stessi e con il proprio destino. La tempesta era ancora lontana quando Sarri, per una volta, l’ha giocata d’anticipo, dicendo: «Dopo la Juve potrei smettere». E pensare che aveva appena cominciato, ma nell’epoca dell’impazienza ogni inizio è una fine in fremente attesa.